Il digitale e le sfide politiche del Ventunesimo secolo
Il differenziale tra la velocità di cambiamento tecnologico e quella di innovazione delle istituzioni è una delle fonti più importanti del disagio nelle persone nei confronti della tecnologia
L’immaterialità del digitale crea alcuni problemi a livello culturale e genera conseguenze economiche. Poiché il digitale non si tocca, non si esperisce con tutti i sensi, le persone hanno difficoltà a percepirne il valore. Questo ha conseguenze (nocive) anche nelle politiche di investimento nel settore. Si è tentati a investire denaro e in generale a occuparsi di cose che hanno una dimensione materiale, che si vedono, si toccano, pesano. Questo perché storicamente le persone sono abituate ad apprezzare il valore solo di ciò che esperiscono con tutti i sensi. La solidità del mattone è proverbiale come fonte di stabilità ed emblema di garanzie per il futuro. Gli asset materiali sono sempre stati un pilastro degli stati patrimoniali delle aziende. Eppure oggi viviamo in un mondo in cui la più grande società di autonoleggio non possiede un’auto (Uber), il maggiore media del pianeta non ha rotative (Facebook), il più grande ipermercato non ha magazzino (Amazon), la più diffusa compagnia telefonica non ha centrali (Skype), il più grande fornitore di ospitalità non possiede palazzi (Airbnb), eccetera. Sono tutte aziende nate da pochi anni e cresciute in un modo esplosivo (per essere più precisi, esponenzialmente) grazie alla mancanza di attriti della dimensione immateriale in cui operano.
Gli asset materiali hanno ancora l’importanza che veniva loro attribuita prima che la relazione con i clienti fosse reintermediata da operatori totalmente immateriali?
Se Google, il motore di ricerca dominante in occidente, penalizza nelle ricerche un’azienda togliendola dagli elenchi, il suo sito/servizio/prodotto sarà come la voce di un uomo che grida nel deserto. Se Booking ed Expedia, i principali intermediari alberghieri, tolgono un operatore dai propri elenchi, questo sarà quasi inesistente. Se Facebook/Whatsapp toglie un ragazzo dalla sua base utenti, lo avrà privato di un fondamentale strumento per le sue relazioni sociali.
Tutte queste rimozioni sono sostanzialmente inappellabili in quanto non esistono le regole e le istituzioni di garanzia che la società tradizionalmente si era data, perché questi servizi erogati da privati non sono oggi considerati un servizio pubblico con obblighi di equità per i fornitori. Tra alcuni anni il maggior concorrente della Brembo, la nota azienda che produce freni, potrebbe essere Amazon, che pure non ha fonderie ma controlla la relazione con il cliente.
La dimensione immateriale tende a prevalere su quella materiale nel rapporto tra le persone, con gli utenti e i consumatori; quella sensazione di fiducia, di affidabilità data dalla concretezza del materiale viene messa a dura prova da nuovi equilibri che si possono costituire a una velocità impensabile mettendo in crisi solidità secolari. Le persone lo percepiscono per il loro lavoro, per i loro beni, i loro investimenti e redditi futuri, e questa volatilità provoca in loro un comprensibile disagio.
Come osserva Charles Leadbeater, le invenzioni di fine del Diciannovesimo secolo che hanno plasmato il Ventesimo secolo come il telegrafo, il treno, l’auto, il telefono, l’aeroplano, il cinema, la televisione, le macchine, hanno determinato la nascita e lo sviluppo di poderose organizzazioni; il loro potere era intrinsecamente connesso ai miglioramenti degli standard di vita ed era associato a una evoluzione delle istituzioni.
Fu con la spinta sociale data dalle grandi migrazioni di lavoratori dall’agricoltura all’industria che i presidenti Roosevelt e Wilson svilupparono la formazione superiore, le autorità di regolamentazione della concorrenza, i rapporti sindacali, le relazioni di politica industriale, eccetera.
Dopo l’avvento della digitalizzazione, grazie agli effetti generati dalla possibilità di interazioni cognitive ed economiche globali in tempo reale, l’innovazione tecnologica e scientifica ha accelerato esponenzialmente, ma quella istituzionale è rimasta sostanzialmente invariata.
Questo differenziale tra la velocità di cambiamento tecnologico e quella di innovazione delle istituzioni è una delle fonti più importanti del disagio nelle persone, forse la più importante. Dalle garanzie per i consumatori a quelle per i lavoratori alla concorrenza globale non abbiamo sin qui fatto un buon lavoro per costruire le istituzioni necessarie a proteggerci dai rischi e a diffondere e approfittare dei benefici portati dallo sviluppo immateriale. Le fondamenta della nostra economia e della società stanno cambiando, il baricentro sta subendo a velocità crescente uno spostamento dimensionale, forse in modo incompatibile con il tempo necessario per una innovazione istituzionale incrementale, non radicale. Il disagio si traduce nelle persone in una domanda di politiche di protezione, di tutela, che viene proposta immaginando di tornare a un passato idealizzato.
Il Ventunesimo secolo ci sta portando anche una trasformazione profonda della comunicazione politica, che sta determinando una crisi delle strutture di intermediazione precedenti. La dimensione immateriale decostruisce le gabbie di senso in cui questa comunicazione era strutturata, annullando tempi e distanze, eliminando la rigida separazione di ruolo precedente tra produttore e consumatore di informazione. Gli effetti sono davanti a noi, in tutto il mondo. Vengono così a mancare punti di riferimento, si aprono spazi di destrutturazione delle relazioni; una trama in cui prosperano la superficialità e l’emotività fino a prevalere sui fatti; una trama che diviene terreno fertile per demagogie e qualunquismi destinati a rimanere con noi a lungo.
Nella confusione tra voci equipotenti vengono a mancare punti di riferimento accreditati e degni di fiducia. E’ banale promettere soluzioni semplici a problemi complessi e simmetricamente è rassicurante sentirsi dire che con semplici interventi si può ritornare al passato, un passato di cui si evocano i fasti corrispondenti ai migliori anni (anagrafici) della vita di molte persone.
Ed è altrettanto rassicurante e semplice annacquare interventi incisivi, ma necessari per il domani, sotto la pressione di legittimi interessi di ieri e di fronte a una complessità incomprensibile. Occorrono infatti competenze profonde per leggere la contemporaneità e per trovare risposte moderne a questioni attuali e future. E un impegno non banale per spiegarle.
Questa è una fase di trasformazione molto complessa, in cui una fetta importante della popolazione è ancorata a schemi di collocamenti politici tradizionali, evocativi di valori che erano fondamentali nel secolo scorso, e un’altra fetta che richiede politiche innovative, adatte per questo secolo, caratterizzato da nuovi conflitti. Anche le organizzazioni aziendali tradizionali rispecchiano tempi passati; sono state concepite e si sono strutturate per ottenere il massimo degli asset fisici. Le organizzazioni aziendali determinate dalla progressiva dematerializzazione dell’economia dovranno avere modalità di gestione assai differenti da quelle tradizionali. E’ una grande sfida per le piccole e medie imprese italiane a forte vocazione imprenditoriale. Ma solo così esse potranno sfruttare al meglio i propri asset distintivi che saranno, nella stragrande maggioranza dei casi, immateriali.
Benché l’economia immateriale metta la conoscenza e quindi la nostra capacità al centro dei modelli di produzione, le persone si sentono più incerte, insicure, e le loro vite sembrano sempre più in balia di fattori ingovernabili. Molte persone percepiscono che forze che non comprendono stringono le loro vite come in una morsa: mentre pochi privilegiati ai vertici della piramide conquistano fette crescenti di ricchezza, molti altri vedono la propria vita più a rischio, il loro futuro più indeterminato, si sentono impotenti. Ma questo senso di impotenza è un fallimento istituzionale; non degli individui.
Gran parte delle istituzioni che ci hanno guidato e protetto quando la società e l’economia erano basate sulla materialità oggi sembrano inadatte ad affrontare il nuovo ordine. Il secolo scorso ci ha portato innovazioni istituzionali che hanno accompagnato la trasformazione industriale come l’allargamento della democrazia, il welfare pubblico e privato, le rappresentanze sindacali organizzate di lavoratori e organizzazioni datoriali, la ricerca scientifica di laboratori e università.
Al tradizionale conflitto tra lavoro e capitale (cuore delle trasformazioni – e, ahimè, delle guerre – che hanno caratterizzato il Ventesimo secolo portando a queste istituzioni di tutela e garanzia) si stanno sovrapponendo altri conflitti. Da una parte, chi all’interno di queste tutele e garanzie si trova perché inserito in un contesto passato. Dall’altra, chi invece ne rimane escluso perché già operante in un futuro diverso, portato dalla evoluzione tecnologica che sfilaccia la società.
Questa sovrapposizione di conflitti sta accadendo con una velocità caratteristica dell’immateriale, perché a queste tecnologie è legata e con questi strumenti comunica e si trasmette. Il tutto in modo quasi invisibile a chi è legato ai rapporti tradizionali della dimensione materiale che non riesce a percepire e quindi a decodificare la trasformazione in atto. Siamo proiettati nell’economia immateriale ma ci basiamo ancora su istituzioni ereditate dall’economia materiale industriale del Ventesimo secolo, incapaci di proporre una visione per affrontare queste sfide.
Abbiamo una società che vive vere e proprie rivoluzioni scientifiche e tecnologiche, con progressi che accelerano in tutti i settori chiave, dalla salute all’energia, ma siamo sostanziali conservatori in politica e nelle istituzioni. Il tutto, per tutelare diritti maturati in un’epoca che non esiste più.
Nel frattempo, le persone che non avranno le storiche istituzioni di tutela e garanzia devono anche sostenere buona parte del peso delle “vecchie” istituzioni.
A quelle persone dovremo dare una nuova visione del futuro.
Per quelle persone dovremo inventare nuove soluzioni.
E’ questa la fonte principale del disagio che viviamo: la nostra incapacità di proporre una visione e di innovare in modo radicale.