Ecco come Big Tech vi guarda anche quando non volete (o non immaginate)
Servizi di localizzazione e tracciamento comportamentale. Perché non basta essere un utente accorto per evitare di essere tracciati
Roma. La Silicon Valley, è noto, è un impero della sorveglianza. Google, Facebook e gli altri guadagnano miliardi archiviando le abitudini dei loro utenti e rivendendo i dati sotto forma di pubblicità. Questa sorveglianza avviene nei modi più discreti, a volte subdoli, e perfino gli addetti ai lavori si sorprendono di quanti metodi ingegnosi gli esperti comportamentali e i programmatori delle aziende di internet abbiano inventato per controllare i loro utenti – spesso anche contro la loro volontà. Google negli ultimi tempi ha cercato di differenziarsi da Facebook facendo molta pubblicità ai propri controlli per la privacy. Non temete di essere sorvegliati, dice l’azienda di Mountain View, gli utenti sono padroni dei dati, noi li utilizzeremo soltanto se loro ci autorizzano, hanno il pieno controllo. Per esempio, a Google fa molto comodo conoscere la posizione dei propri utenti. E’ utile per attivare servizi, migliorare la pubblicità, creare pattern di comportamento. Ma, dice Google, se voi volete disattivare i servizi di localizzazione (nello specifico, si tratta della funzione “Cronologia delle posizioni”) è possibile farlo, e “i posti in cui andate non saranno più archiviati”. Un’inchiesta di Associated Press ha rivelato che non è vero. In molte circostanze, quando si utilizza un dispositivo mobile, Google registra dove si trovano i suoi utenti anche se la cronologia delle posizioni è spenta. Quando gli utenti usano Google Maps, quando cercano le previsioni del tempo o fanno su Google ricerche apparentemente slegate da questioni geografiche, il luogo in cui si trovano è localizzato e conservato con precisione, anche se la “cronologia delle posizioni” è disattivata. Per evitare questo genere di tracciamento, bisogna disattivare un’ulteriore opzione che si chiama “Attività web e app”, sepolta tra le impostazioni. Non basta essere un utente accorto per evitare di essere tracciati: bisogna essere smaliziati, perché gli imperi della sorveglianza hanno infiniti modi per essere più furbi dei loro utenti. A volte, tuttavia, anche essere smaliziati non basta.
Sapevate che per essere tracciati e identificati basta tenere lo smartphone in mano? Un settore in espansione nel campo del tracciamento delle abitudini degli utenti sono le biometriche comportamentali – ne parla diffusamente un articolo del New York Times di ieri. Funziona così: esistono aziende e servizi che tracciano la manualità dell’utilizzo dei dispositivi mobile e dei computer e la usano per identificare gli utenti. Per esempio, ciascun utente ha la tendenza a tenere lo smartphone inclinato allo stesso modo, il giroscopio all’interno dell’apparecchio può registrare quest’angolo di inclinazione e associarlo a un utente. E’ possibile misurare quanto velocemente ciascun utente scorre le schermate dello smartphone e la pressione applicata quando si tocca lo schermo. Quando l’utente è al computer, è possibile tracciare la posizione del mouse, sapere se in una tastiera l’utente è abituato a usare i numeri sopra le lettere oppure il tastierino laterale, si può registrare il ritmo e la velocità di battitura, la posizione del mouse in posizione di riposo, la velocità di scorrimento delle pagine. Sono migliaia di indicatori, che presi tutti insieme costituiscono una carta d’identità digitale dell’utente, che tiene lo smartphone in un certo modo, usa il mouse in un altro e scrive i messaggini con l’indice anziché con il pollice. Questi sistemi di riconoscimento sono usati da centinaia di aziende, in alcuni casi per ragioni di sicurezza: alcune banche applicano la biometria comportamentale all’home banking, e se l’utente fa qualcosa di strano (diciamo che compone i numeri di un bonifico con il tastierino laterale, anche se il possessore del conto non lo usa mai) allora scattano degli allarmi perché il conto potrebbe essere stato hackerato. E’ comodo e conveniente – ma al tempo stesso c’è da tremare al pensiero che anche quando muoviamo il mouse c’è un algoritmo che ci guarda.