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Google non è truccato (come dice Trump), ma Big Tech è pieno di pregiudizi

Eugenio Cau

La battaglia del presidente americano manca il punto centrale, che è lo strapotere tecnologico della Silicon Valley

Roma. Donald Trump twitta che Google ha truccato i risultati del suo motore di ricerca per fare apparire soltanto risultati contro di lui. Aggiunge alla lista dei social media truccati anche Facebook e Twitter, e poi dice, un po’ minaccioso: ci occuperemo della questione. L’attacco del presidente americano a Big Tech è cominciato tre giorni fa e potrebbe trasformarsi in una campagna di pressione di lunga durata: dopo quel primo tweet, Trump ha continuato a fare dichiarazioni durissime e a promettere sfracelli, provocando, come sperato, un’enorme polemica. Affermare che le grandi aziende di internet truccano i loro risultati e i loro ranking di posizionamento per favorire una parte politica contro un’altra fa risuonare campanelli pavloviani tra tutte le fazioni, specie negli Stati Uniti.

 

I conservatori sono in polemica contro la Silicon Valley da anni, e dicono che gli ingegneri strapagati che circolano nei begli uffici di Google e di Facebook sono per la stragrande maggioranza militanti di sinistra che condividono valori liberal – dove per liberal si intende: molto sensibili sui temi etici, meno sulla redistribuzione economica. Hanno ragione, ci sono moltissimi casi che lo dimostrano. Il più celebre fu quando, l’anno scorso, l’ingegnere di Google James Damore scrisse un documento che circolò internamente in cui condannava lo strapotere dell’ideologia progressista tra i corridoi di Mountain View, e chiedeva rispetto per chi ha posizioni conservatrici. Fu licenziato. Il documento, a dire il vero, aveva più di un passaggio peculiare, per esempio teorizzava l’inferiorità delle donne nel campo dell’ingegneria, ma fu la prova che Google, quando si tratta di opinioni controverse provenienti dal campo conservatore, ha ben poca tolleranza. Poco prima c’era stato il caso dei “trending topics” di Facebook, una sezione del social network (soltanto in versione americana) in cui dei dipendenti selezionavano notizie da presentare agli utenti. Si scoprì che queste notizie erano quasi tutte di tendenza progressista, e che i dipendenti in questione, presto licenziati, censuravano volentieri le notizie conservatrici. L’altroieri il New York Times ha dato la notizia che anche dentro a Facebook è scoppiata una fronda in stile Damore, con cento dipendenti che si sono detti stanchi di sentirsi sopraffatti dalla soverchiante attitudine liberal dentro all’azienda.

Ma non c’è nemmeno bisogno di andare a cercare fronde interne per sapere che la Silicon Valley è progressista: se lo dicono da soli. Come Jack Dorsey, fondatore e ceo di Twitter, che in un’intervista recente alla Cnn ha detto candido: “Il nostro pregiudizio, lo ammetto, è soprattutto verso sinistra”. Casi come quello di Alex Jones, predicatore disgustoso di odio e complotti che però è stato cacciato dai social dopo anni di servizio soltanto dopo che la sua presenza online era diventata motivo di scandalo tra le élite liberal, aggiungono sospetti ai sospetti.

Si penserà allora che la Silicon Valley sia il beniamino dei liberal. Forse un tempo, ma oggi non è più così. I progressisti sono arrabbiati con Google e soprattutto con Facebook, accusato di essersi trasformato nella piattaforma che ha consentito a Donald Trump di vincere le elezioni del 2016, ai russi di interferire con la democrazia americana, ai populisti e agli xenofobi di farsi strada nel discorso pubblico europeo e non solo. Questa insoddisfazione si è cristallizzata nel caso di Cambridge Analytica, l’azienda di consulenze che ha usato indebitamente i dati degli utenti Facebook per costruire modelli di voto che hanno aiutato la campagna elettorale di Trump e quella sulla Brexit. Prima ancora, le operazioni di propaganda compiute dai russi tramite la diffusione di fake news su internet erano in gran parte favorevoli ai conservatori. Ma anche in questo caso non c’è bisogno di leggere i report dell’intelligence per capire che negli ultimi tempi i conservatori hanno sfruttato le aziende di internet a loro vantaggio. Basta ricordare che Brad Parscale, il capo della campagna digitale di Donald Trump, diceva: senza Facebook non avremmo mai vinto le elezioni.

 

E dunque chi ha ragione quando si dice che la Silicon Valley pende da una parte o dall’altra? Anzitutto bisogna ricordare una cosa che spesso si dimentica: tutte le aziende di internet sono soggetti privati che godono del diritto costituzionale di pubblicare quello che vogliono. Se Google volesse promuovere soltanto articoli sul marxismo-leninismo e Facebook diventasse una fanzine neonazista, entrambi avrebbero pieno diritto di farlo. Ma poiché questi strumenti sono sempre più considerati come servizio pubblico, e loro stessi hanno convenienza a definirsi come tali, possiamo metterla così: la Silicon Valley è piena di persone liberal che hanno creato uno strumento potentissimo – la ricerca online, i social media – che quelli di destra sono diventati molto bravi a utilizzare. In questa definizione, la parte su cui bisognerebbe concentrarsi è quella dello “strumento potentissimo”, capace di influenzare il discorso pubblico con una capillarità mai vista prima – uno strumento che dovrebbe preoccuparci indipendentemente da quale fazione politica lo domina al momento.

 

Ma che dire dell’accusa originaria di Trump? Davvero Google è truccato? Non possiamo dirlo con certezza, perché l’algoritmo di Google è segreto come la ricetta della Coca-Cola. E’ anche vero, e di questo non dobbiamo mai dimenticarci, che nessun algoritmo è davvero neutrale: ogni riga di codice è permeata del pensiero e dei pregiudizi di chi la scrive. Tuttavia è facile ipotizzare che Google non manipoli i suoi risultati di ricerca in maniera così marchiana, per la semplice ragione che non gli conviene: perché inimicarsi la metà conservatrice della popolazione mondiale? Inoltre è possibile risalire alla fonte delle accuse di Trump: un blog chiamato PJMedia che sostiene che il 96 per cento dei risultati di ricerca per la parola “Trump” derivi da siti di giornali di sinistra. Se si va a vedere quali giornali sono considerati “di sinistra”, si scoprirà che PJMedia sostiene che praticamente tutti i media mainstream, con l’eccezione di Fox News e del Daily Mail, sarebbero di sinistra: il New York Times, il Washington Post, tutte le agenzie di stampa, tutti i canali televisivi, perfino l’informazione finanziaria di Bloomberg sarebbe di sinistra. Trump concorda con questa visione: tutti i media mainstream sono contro di lui. Ma così, l’unico peccato di Google diventa aver dato spazio all’informazione tradizionale.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.