Ecco perché il più grande editore del mondo non è un vero alleato dell'informazione
Facebook e il caso delle statistiche video gonfiate
Facebook è il più grande editore del mondo. Questa definizione non piace a Facebook, che preferisce definirsi una piattaforma neutrale, ma nessuna altra azienda nella storia ha mai esercitato un’influenza tanto grossa sul mondo dell’informazione. I lettori sono tutti sui social network, si dice, e modifiche minuscole all’algoritmo possono mandare in rovina intere imprese editoriali. Per questo, quando Facebook dice di fare una cosa, per anni i media hanno sempre obbedito: senza Facebook siamo spacciati. Ma mentre l’informazione obbediva a Facebook – pareva quello l’unico modo di uscire dalla grande crisi dell’editoria – succedeva qualcosa di strano. I ricavi di Facebook decuplicavano, mentre i media sprofondavano sempre di più nel baratro, con poche eccezioni. La qualità degli articoli e dei servizi diminuiva a discapito della viralità, e di conseguenza diminuivano anche l’autorevolezza dei media e la fiducia dei lettori. A un certo punto, Facebook diramò un nuovo ordine: bisogna puntare sui video. Mark Zuckerberg disse che la parola scritta era cosa del passato, che i suoi utenti (allora erano già più di un miliardo, oggi sono 2,2 miliardi) volevano soltanto storie raccontate con i video, che nel giro di cinque anni internet sarebbe stato soltanto immagini in movimento, le parole relegate alle didascalie. Le redazioni (assieme a tutte le aziende e a tutte le agenzie pubblicitarie del mondo) si convinsero che Zuckerberg avesse ragione, perché il giovane ceo di Facebook snocciolava numeri stellari: visualizzazioni nell’ordine delle centinaia di milioni, proiezioni di ricavi quintuplicate, promesse di infinite condivisioni – e obbedirono.
Molti media, per fare il cosiddetto “pivot to video”, cambiarono in maniera drammatica: licenziarono giornalisti e assunsero montatori e registi, ridussero ulteriormente la qualità dell’informazione, ché tutto doveva rientrare in una clip di 120 secondi, e si gettarono ancora di più tra le braccia di Facebook. C’è un problema: i dati di Zuckerberg erano falsi. Gonfiati, e non di poco. Facebook aveva sovrastimato l’importanza dei video in maniera madornale, per alcune metriche anche del 900 per cento, e forse aveva nascosto l’errore. Facebook ovviamente smentisce tutto.
Il Wall Street Journal già nel 2016 aveva scritto che Facebook gonfiava le statistiche dei suoi video, ma allora si parlava di un margine d’errore del 60-80 per cento. Questa settimana però sono usciti documenti legali di una causa di alcuni piccoli inserzionisti della California e i dati dell’accusa sono spaventosi: Facebook prometteva che i suoi video fossero visti in media 17,5 secondi (abbastanza per uno spot) quando invece erano visti appena due secondi. Decine di giornalisti licenziati perché i loro giornali dovevano puntare sui video si sono messi inferociti su Twitter, e altri hanno cominciato a collegare i puntini e a chiedersi: davvero il più grande editore del mondo è un alleato dei media? (Non se lo chiedono soltanto i media; ieri alcuni grossi fondi di investimento hanno invocato le dimissioni di Zuckerberg perché non è in grado di gestire i problemi di reputazione del suo social, e gli inserzionisti pubblicitari sono arrabbiatissimi).
A causa di Facebook è pure scoppiato in faccia a tutti il grande scandalo delle fake news, che ha visto i media tra le vittime, specie da quando, a inizio anno, il social network ha cominciato a rendere più difficile la promozione di articoli che parlano di politica. Il grande matrimonio tra Facebook e media sta naufragando, e un dato lo dimostra più di ogni altro: il Financial Times sta per lanciare una importante campagna abbonamenti, e sapete quanti dollari ha destinato negli Stati Uniti alla promozione su Facebook? Zero.