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Mark Zuckerberg, il tiranno solitario

Eugenio Cau

Dentro a Facebook c’è soltanto un sovrano, che ha fatto dell’isolamento una scelta di business e di vita

Nel corso della sua storia durata 15 anni, Facebook ha comprato decine, forse centinaia di aziende. Piccole startup promettenti, gruppuscoli disperati che però avevano qualche idea giusta, possibili concorrenti che vengono divorati prima di poter diventare pericolosi. Antonio García Martínez, il programmatore e autore di “Chaos Monkeys”, libro sulla Silicon Valley, racconta che Facebook comprò la sua startup per una cifra elevatissima anche se la startup era un completo fallimento, soltanto per potersi assicurare il talento suo e di un collega. Pescegrande-mangia-pesce-piccolo è una pratica comune dentro alla Silicon Valley. Ma in questa continua fagocitazione di startup, alcune acquisizioni sono più importanti delle altre, non servono soltanto per incamerare un’idea o bloccare un concorrente, sono mosse strategiche fondamentali per il futuro dell’azienda-madre. Per Google, per esempio, le grandi acquisizioni sono state quelle di YouTube, Android, DeepMind. Per Facebook sono tre: WhatsApp, Instagram e Oculus.

   


Facebook ha fatto tre grandi acquisizioni nella sua storia: WhatsApp, Instagram e Oculus. I fondatori se ne sono andati tutti


 

Di queste, le prime due sono all’origine di prodotti noti: si potrebbe dire, anzi, che in ottica futura WhatsApp e Instagram diventeranno per Facebook più importanti del prodotto principale e originario, il social network da cui tutto prende il nome. WhatsApp potrebbe essere trasformata in una super-app per fare acquisti e ordinare cibo da asporto come è WeChat in Cina; Instagram detiene la chiave del segmento demografico più promettente e pronto all’acquisto: i giovani. Oculus è una divisione più defilata, ma altrettanto importante: progetta occhialoni per la realtà virtuale e la realtà aumentata, che per ora sono ingombranti e fanno sembrare imbranato chi li indossa, ma potrebbero aprire a Facebook mercati miliardari come quello dei videogiochi – inoltre molti analisti ritengono che la realtà virtuale potrebbe presto mantenere le promesse e diventare un prodotto vero, che sarà usato per interagire con il prossimo e fare acquisti in supermercati fatti di bit.

   

Quando una grande azienda fa un’acquisizione strategica, di solito le cose vanno così: i fondatori della startup comprata sono inseriti come manager dentro all’azienda compratrice, diventano miliardari – o quanto meno milionari – grazie a pagamenti in cash e in azioni, e cominciano una nuova vita, da squattrinati programmatori a dipendenti agiati. Spesso vengono messi a capo della loro vecchia startup, all’interno del più grande corpaccione dell’azienda madre. E’ successo così per Brian Acton e Jan Koum di WhatsApp, per Kevin Systrom e Mike Krieger di Instagram e per Brendan Iribe e Palmer Luckey di Oculus. Ma c’è un problema. Tutti questi fondatori-colleghi hanno abbandonato Facebook nel giro di pochi mesi.

  

I primi due casi sono relativamente noti. Il primo è stato Brian Acton di WhatsApp. Nel 2014, l’acquisizione della app di messaggistica da parte di Facebook fu una notizia enorme, una delle più audaci operazioni di business del decennio: WhatsApp al tempo non generava nemmeno un guadagno, ma Facebook la comprò per la cifra astronomica di 22 miliardi di dollari. WhatsApp e Facebook erano due aziende molto diverse, l’una ossessionata dalla privacy e l’altra fondata sul principio che, come disse Zuckerberg in un intervento famoso, la privacy è un valore obsoleto. Quando comprò WhatsApp, Zuckerberg promise che non avrebbe cercato di trasformare la app di chat in uno strumento di monetizzazione, con profilazione degli utenti e vendita dei dati al miglior offerente (c’era una clausola nel contratto di vendita su questo). Consentì perfino al fatto che Acton e Koum aggiungessero ai messaggi un sistema di crittografia, per aumentare la sicurezza del sistema. Ma presto cominciò a stancarsi: WhatsApp, per cui aveva speso una montagna di denaro, non produceva ritorni consistenti, e Wall Street voleva vedere risultati. Così cominciò a spingere per monetizzare, profilare, pubblicizzare. I fondatori di WhatsApp resistettero un po’, poi la pressione divenne troppa. Acton se n’è andato nel settembre del 2017, lasciando sul tavolo 850 milioni di dollari di stock option non maturate (non è che se la passi male: l’uomo vale 3,6 miliardi di dollari); Koum ha deciso di puntare ai soldi e ha aspettato fino ad aprile di quest’anno, in attesa che si sbloccassero le suddette opzioni per potersene andare con tutto il malloppo.

  

La cosa interessante è che non soltanto Acton se n’è andato in polemica: è diventato un attivista anti Facebook. A febbraio ha finanziato con 50 milioni di dollari Signal, che è una app rivale di WhatsApp molto concentrata sulla sicurezza e la privacy; a marzo, nel mezzo dello scandalo Cambridge Analytica, ha twittato: “E’ il momento: #deletefacebook”.

  

L’uomo che ha convinto miliardi di persone a dare via la propria privacy è la personalità più riservata di tutta la Silicon Valley 

Acton è tra tutti il più duro degli ex fondatori inglobati e poi risputati da Facebook. I due di Instagram, per esempio, non sono stati altrettanto espliciti, ma hanno lasciato abbastanza indizi da poter dire che anche loro hanno avuto molte riunioni burrascose con Mark Zuckerberg. Instagram era stata acquisita nel 2012 per 750 milioni di dollari, e ci aveva messo un po’ per diventare la macchina da soldi che è oggi. Lynette Luna, un’analista di GlobalData, ha detto al Guardian che quando compra una startup importante come Instagram, Facebook dapprima dà ai suoi fondatori molta libertà per favorire la crescita; poi, quando vede che il prodotto è maturo, comincia a mungere più soldi che può. Quando è cominciata la mungitura, a settembre 2018, Kevin Systrom e Mike Krieger se ne sono andati – insieme, cosa che già di per sé è una dichiarazione politica. Om Malik, venture capitalist e analista di cose tecnologiche, ha scritto che è perfettamente comprensibile che i fondatori se ne vadano da Facebook: “Come abbiamo imparato più e più volte, dentro a Facebook c’è un solo re. E ci sarà sempre un solo re”.

  

Situazione simile per Oculus, comprata per 2 miliardi di dollari nel 2014. Dei due fondatori, Palmer Luckey ha lasciato Facebook all’inizio del 2017, e qualche mese dopo ha rilasciato un’intervista per dire che non si è trattato di una scelta sua. L’altro, Brendan Iribe, ha abbandonato l’azienda questa settimana. La ragione che si legge sui media riguarda certi litigi sulla strategia: Iribe voleva progettare un sistema di realtà virtuale da collegare al computer, Zuckerberg ne voleva uno senza cavi. Non stiamo parlando dei grandi dilemmi morali degli altri fondatori, ma ancora una volta si riproduce il paradigma di Malik: c’è un solo re.

  

Eppure, dopo tutti questi addii, la frase si può ribaltare: il re è solo.

  

E’ solo perché è l’unico che prende le decisioni, e perché una buona parte di coloro che avevano la possibilità di contrastarlo, i fondatori che avevano una certa autorevolezza sulle app originarie, se ne sono andati o sono stati mandati via. Essere l’unico sovrano dell’impero è l’obiettivo di tutti i grandi capitani d’industria, e di certo a Zuckerberg non se ne può fare un torto. C’è anche un altro vantaggio nell’aver eliminato i fondatori: se un giorno la scure della regolamentazione dovesse cadere su Facebook, e l’azienda principale dovesse essere separata da WhatsApp e da Instagram e da Oculus, sarebbe più difficile rendere i vari tronconi indipendenti senza i loro vecchi leader.

Brian Acton di WhatsApp non soltanto ha abbandonato l’azienda, si è anche trasformato in un attivista anti Facebook 

Molto di quello che pensa Brian Acton del suo periodo a Facebook è contenuto in una lunga intervista che l’imprenditore ha rilasciato a Forbes qualche settimana fa. Lì si legge degli 850 milioni a cui ha rinunciato e delle mire di monetizzazione che Zuckerberg aveva su WhatsApp. Ma il passaggio più rivelatorio è questo: “Acton dice di non aver mai sviluppato un rapporto personale con Zuckerberg: ‘Non posso dirti nulla su che tipo è’”. Ora, è possibile che i due non andassero d’accordo, ma per più di tre anni Acton è stato un partner di lavoro di Zuck piuttosto importante, non uno dei tanti impiegati. Ma a ben pensarci: chi è che potrebbe dirci davvero qualcosa su “che tipo è” Mark Zuckerberg? I media si occupano di lui da 15 anni, ma non ci sono profili che lo descrivano in maniera compiuta, e nessuno s’è mai fatto avanti per dire: io lo conosco. La sua più fidata collaboratrice è Sheryl Sandberg, coo dell’azienda, che ha 15 anni più di Zuckerberg e dentro a Facebook gioca un ruolo di supervisore, di persona-adulta-nella-stanza. A scorrere i profili Facebook di Mark e Sheryl, non ci sono foto dei due che prendono una birra assieme in un momento di amicizia. A scorrere il profilo di Mark, non ci sono foto di lui che prende una birra, un bicchiere d’acqua o un succo di frutta con nessuno.

  

Nel 2010 il film “The Social Network”, scritto da Aaron Sorkin, dipingeva Zuckerberg come un genio sociopatico freddo e calcolatore, incapace di stabilire rapporti umani. Zuck all’epoca aveva 25 anni – 24 quando fu scritto il libro da cui è tratto – era un ragazzino timidissimo e impacciato a capo di un’azienda che era ancora una grossa startup, che assomigliava più a un fenomeno culturale e a un gioco per ragazzi che a un vero business. Sorkin, allora, fu molto poco generoso nel vedere freddezza dove ancora poteva esserci soltanto immaturità.

  

Oggi però le cose sono cambiate, per Zuckerberg e per Facebook. L’azienda è una delle prime cinque del mondo, è un gigante che si espande su tutto il globo e determina in maniera consistente la vita di miliardi di persone. Facebook è uscito dalla bolla ed è diventato una forza con cui fare i conti anche nel mondo reale, e non sempre questa forza è stata benefica, come dimostrano gli effetti dannosi che il social network ha avuto sulla politica, sul giornalismo, nei paesi emergenti. Facebook è diventato un’azienda matura. E’ successo lo stesso anche per tutti i suoi concorrenti e predecessori: Microsoft negli anni Novanta, Apple, Amazon e Google nei Duemila.

  


Perché Zuckerberg non riesce a scrollarsi di dosso l’impressione di essere ancora il sociopatico freddo di “The Social Network”?  


  

Anche i dirigenti di queste aziende sono diventati maturi e hanno assunto il ruolo di personaggi pubblici e leader dell’industria più influente del secolo. Zuckerberg, invece, non è mai riuscito a scrollarsi di dosso l’impressione di essere ancora quello di “The Social Network”. E’ l’uomo che ha convinto mezzo mondo a cedere la propria privacy, ma quando ha comprato la sua residenza a Palo Alto, dopo aver speso 7 milioni di dollari per casa sua ne ha spesi altri 44 per comprare tutte le ville attorno, così da avere più privacy e sicurezza. E’ l’uomo che ha spinto miliardi di persone a condividere la propria vita online, ma non condivide quasi niente di sé: le foto del suo profilo Facebook sono tutte strette di mano con capi di stato, conferenze e qualche scenetta di vita famigliare molto ben coreografata.

  

Mentre Bill Gates si fa prendere in giro nelle comparsate tv da Ellen DeGeneres, Elon Musk sbrocca su Twitter a giorni alterni e fuma hashish in diretta radio, Jeff Bezos litiga online con il presidente degli Stati Uniti e Tim Cook è molto diretto sulla sua vita personale – per non parlare di quella telenovela che è stata la vita di Steve Jobs –, Mark Zuckerberg è la personalità più privata di tutta la Silicon Valley. Proprio lui che ha rivoluzionato in tutto il mondo il concetto di ciò che è privato.

  

Mark Zuckerberg è un tiranno solitario. E’ una scelta di business e una scelta di vita che finora ha pagato molto bene. Ma le tante crisi che Facebook ha attraversato negli ultimi anni, da Cambridge Analytica al Myanmar, hanno messo in dubbio l’autorità del sovrano. Giusto la scorsa settimana un gruppo di investitori ha chiesto le sue dimissioni perché, dicono, Zuck sarebbe inadatto a gestire i problemi di reputazione e di regolamentazione che affliggono la sua creazione. Niente di tutto questo può succedere: dentro a Facebook c’è un solo re.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.