La war room di Facebook istituita in occasione delle elezioni americane per neutralizzare attacchi hacker e fake news (Foto LaPresse)

Tech e giornali, sposi infelici

Eugenio Cau

Approcci diversi, stesso problema: Facebook, Google, Apple e il rapporto di odio e amore con i media

Se parlate con un giornalista che abbia almeno quarant’anni, e che dunque abbia visto un poco com’era il mondo prima del digitale, vi dirà molto probabilmente, e in molteplici varianti, che internet ha rovinato la professione. Google, Facebook e gli altri hanno rubato ai giornali introiti pubblicitari, hanno costretto i giornalisti a competere in un mercato, quello del web, con cui hanno poca dimestichezza; soprattutto, hanno disintegrato la fiducia del pubblico nei media, ché su Facebook non c’è differenza tra un articolo del New York Times e un blog complottista.

 

Curiosamente, se parlate con qualcuno che si intende di internet, o meglio ancora con qualcuno vicino a Google, Facebook e gli altri, ci sono ottime probabilità che vi dica, in confidenza, che per le grandi aziende del web avere a che fare con i media è una calamità, un danno più che un beneficio. Prendete Facebook: prima del 2012, era ancora un social network radioso su cui condividere le foto della settimana bianca. Ma la concorrenza di Twitter, che proprio in quegli anni stava avendo un grande successo come strumento per la condivisioni di notizie e di informazioni, convinse Mark Zuckerberg che bisognava buttarsi sui media, e fare di Facebook lo strumento principale attraverso cui gli utenti di internet accedono all’informazione. La strategia ebbe successo, la crescita di Twitter fu fermata, ma molti ritengono che, per Facebook, trasformarsi nel più grande editore del mondo sia stato l’inizio delle sue disgrazie: fake news, campagne di disinformazione, regimi di mezzo mondo pronti a strumentalizzare il social network. Guardate anche Google: buona parte dei suoi mal di testa giuridici deriva dal suo rapporto con i media.

 

Se chiedete ai giornalisti, vi diranno che internet è una calamità. Se chiedete alle aziende web, vedrete che il sentimento è ricambiato

 

E tuttavia, almeno negli annunci ufficiali, sembra che media e aziende del web non possano fare a meno gli uni delle altre. I giornali e le televisioni, specie i più grandi, dicono che Facebook e Google sono strumenti irrinunciabili, e con irrinunciabili intendono: ormai siamo troppo compromessi, dagli accessi e dalle visite online che ci arrivano da Facebook e Google dipende la nostra sopravvivenza. Facebook e Google, di rimando, dicono che i media sono partner fondamentali, e con fondamentali intendono: non vediamo l’ora di sostituire tutti i giornalisti con robot obbedienti, ma nel mentre ancora temiamo l’influenza di cui i media godono presso i legislatori e la politica.

Quello tra i media e le aziende del web è un matrimonio di convenienza e infelice, ed è un matrimonio in cui per gran parte del tempo si litiga su influenza e denaro. Il gran dibattito di quest’anno intorno alle legge europea sul copyright, in fondo, non era altro che questo: gli editori volevano una fetta più grande della torta dei ricavi della Silicon Valley, e si sono alleati con gli europarlamentari per ottenerla; la Silicon Valley ha fatto di tutto per non cedere, e infine – evento assai raro – ha dovuto acconsentire, ma ancora si dibatte. In questi giorni YouTube ha avviato una grande campagna pubblicitaria sulla propria piattaforma per protestare contro la legge, qualificandola come uno strumento di censura della libera espressione su internet.

In questo matrimonio con molte spose e molti mariti ciascuno ha la sua strategia. Il Guardian, maggior quotidiano progressista del Regno Unito, di recente ha festeggiato una campagna di autosostentamento che ha raggiunto in tre anni e mezzo un milione di sostenitori (significa: un milione di persone che o si sono abbonate o hanno fatto una donazione a sostegno del giornale, sia essa una tantum o periodica), e di recente ha inondato la sua homepage con grandi autoelogi del proprio modello, giudicato come sostenibile e sopratutto come indipendente. Peccato che metà delle entrate del Guardian dipenda ancora dalla pubblicità, e che dunque Google e Facebook, che sono i maggiori distributori di pubblicità al mondo, non siano certo stati eliminati dall’equazione, anzi: in un’intervista a Italia Oggi il responsabile dei ricavi del Guardian, Hamish Nicklin, ha detto che i due giganti sono assai importanti.

  

I media hanno mani e piedi legati, almeno per ora. Se vogliono esistere online, devono aggraziarsi Google, Facebook e i loro algoritmi, non esiste nessuna alternativa praticabile. Più interessanti, e mutevoli, sono le strategie adottate nell’altro campo, quello delle piattaforme online. Per loro, le notizie non sono rischiose soltanto perché portano fake news, campagne di propaganda e attenzione politica e giornalistica non desiderata. Lo sono anche perché sono un potenziale veicolo di responsabilità. Quando si dice di Facebook che è il più grande editore del mondo, per la semplice ragione che è il luogo in cui più persone in assoluto accedono alle notizie, l’azienda risponde inorridita: essere editori significa avere delle responsabilità sui contenuti, e il solo pensiero fa venire l’orticaria a Mark Zuckerberg. Una delle ragioni principali del successo delle piattaforme di social network è che sono state esentate (mediante leggi specifiche, sia negli Stati Uniti sia in Europa) dall’obbligo di controllo editoriale che spetta, per esempio, a quotidiani e settimanali, e uno degli obiettivi fondamentali della Silicon Valley è mantenere questa esenzione. Facebook e Google prendono le notizie, danno loro più o meno importanza, decidono tramite algoritmo cosa fare vedere e a chi, ma quando si parla di responsabilità vogliono farsi passare come piattaforme neutrali.

  

Da qui cominciano le differenze. Facebook, con i media, ha sempre avuto un rapporto più conflittuale, e non soltanto perché è stato l’oggetto, nel corso degli ultimi anni, di uno stillicidio di inchieste e rivelazioni che è culminato pochi giorni fa in un pezzo durissimo del New York Times che accusava l’azienda di manipolare media e politica, perfino usando fake news e teorie del complotto. Il social network ha sempre ritenuto che i media non fossero il suo core business. A questo si aggiunge il disinteresse personale di Mark Zuckerberg. In un’intervista con Evan Osnos del New Yorker uscita lo scorso settembre, il fondatore, ceo e presidente di Facebook ha detto: “Leggo soprattutto aggregatori. Senz’altro leggo Techmeme (un aggregatore di notizie sull’industria tech, ndr) e il suo equivalente su media e politica, giusto per sapere cosa succede. Ma non c’è nessun giornale che io prenda e legga dall’inizio alla fine. È quello che succede con la maggior parte delle persone al giorno d’oggi – quasi nessuno legge giornali di carta – ma io non visito nemmeno molti siti di news”. Questa dichiarazione, da sola, rende l’idea di dove si trova l’informazione nella scala dei valori di Mark Zuckerberg: piuttosto in basso.

 

Facebook ha cominciato a occuparsi in maniera strategica dell’informazione quando è diventata un problema. Dopo che il social network è rimasto bruciato dallo scandalo delle fake news, lo scorso gennaio ha deciso di modificare il proprio algoritmo per dare rilievo maggiore agli scambi interpersonali con amici e parenti, riducendo il ruolo delle notizie. Questi cambiamenti hanno cominciato ad avere effetto a partire da metà dell’anno e molte testate hanno notato che le visite ai loro siti sono crollate – con crollo conseguente delle entrate pubblicitarie. Inoltre, negli Stati Uniti e più di recente nel Regno Unito, Facebook ha reso più complesso e faticoso sponsorizzare post di contenuto politico (significa: pagare Facebook affinché un articolo di politica sia visto da più persone, con criteri scelti da chi paga). Anche in questo caso, crollo delle visite.

  

Non è l’unica ragione di scontentezza per i media: di recente il Wall Street Journal ha rivelato che Facebook aveva sovrastimato di molto (60-80 per cento, ma secondo una querela esposta contro il social network si tratterebbe del 150-900 per cento) le statistiche di visualizzazione dei video, e aveva usato quei numeri per convincere i media a pubblicare moltissimi video con gran investimento di risorse, anche se in realtà erano visti da relativamente poche persone. La decisione di Facebook di puntare sulla qualità dell’informazione non ha avuto soltanto risvolti negativi, anzi. A febbraio, il social network ha annunciato un investimento (sarebbe meglio dire: donazione) di 3 milioni di dollari per aiutare 10-15 giornali locali americani ad aumentare i loro iscritti. La scorsa settimana, nel Regno Unito, ha annunciato che donerà 4,5 milioni di sterline per finanziare 80 posti di lavoro giornalistici in giornali locali.

  

Sono iniziative tanto lodevoli quanto interessate, di cui Google è un veterano. Il motore di ricerca ha un rapporto meno conflittuale con i media, probabilmente per via di una strategia più lungimirante e meno abrasiva. Non che non ci siano stati problemi: abbiamo già citato la legge sul copyright europea, molto sostenuta dagli editori e combattuta strenuamente da Google. A causa di questa legge, Google ha minacciato pochi giorni fa di chiudere in tutto il Vecchio continente il suo servizio di News, che è uno dei principali veicoli di visite per molti giornali online. Google News aveva già chiuso in Spagna, dopo una sentenza che, come al solito, verteva sui soldi: gli editori iberici volevano una quota più ampia dei ricavi pubblicitari che il motore di ricerca ottiene grazie ai contenuti editoriali (nello specifico, grazie agli snippet, i riassuntini degli articoli che appaiono su Google News). Google rispose con la serrata.

 

Google ha un rapporto munifico con il mondo dell’informazione: sparge milioni a pioggia, come aiuti umanitari

E tuttavia, Google si è mostrato molto più munifico con i media di quanto non lo sia Facebook. Da molti anni, con cadenza irregolare, annuncia investimenti e donazioni e programmi di aggiornamento in favore di giornali, tv e giornalisti. L’ultimo risale allo scorso marzo, quando Google ha presentato la Google News Initiative, uno stanziamento di 300 milioni di dollari per contribuire ad alcuni progetti selezionati di informazione e creare un ambiente più funzionale per le news online. L’obiettivo dichiarato è quello di “costruire un futuro più sostenibile per l’informazione”, e il linguaggio del marketing assomiglia un po’ a quello degli aiuti umanitari, come a dire: “Costruire un futuro più sostenibile per lo Yemen”. 

 

In mezzo ai contendenti c’è Apple, che è atipica perché ha un settore dei servizi (dunque anche dell’informazione) molto più ridotto rispetto a quelli di Facebook e Google, ma che sta corteggiando i media con un approccio apparentemente più rispettoso. Apple News (la app di notizie dell’iPhone che di recente è stata inserita anche nei computer) è relativamente poco usata in Italia, ma negli Stati Uniti sta diventando una delle fonti principali di traffico per molti media online, assieme a Facebook e Google. Apple non si fida degli algoritmi, e in America ha messo su una redazione composta in gran parte da ex giornalisti che sceglie le notizie dai vari media e le inserisce a mano nella app, con maggior cura di temi, contenuti, gerarchia delle notizie.

  

Se Google News sembra una ridda di articoli, Apple News sembra un giornale online con molteplici fonti. Apple News inoltre ha stabilito partnership con diverse testate. Bella idea, ma c’è un problema. Come ha scritto Will Oremus su Slate, a settembre, il sistema non rende quasi niente ai giornali: “Quello che succede è che Apple – l’azienda di maggior valore al mondo – ottiene articoli gratis dalle testate, molte delle quali lottano per la sopravvivenza, e dà a loro in cambio pochi soldi, o niente”. L’avete capito, ormai, qual è il problema.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.