Il presidente nigeriano clonato e la nuova frontiera delle fake news: la tecnologia
La storia di Muhammadu Buhari, costretto a dichiarare in conferenza stampa di essere se stesso. La differenza tra un “io” e un robot
Paradossi della nostra società: il presidente nigeriano Muhammadu Buhari deve dichiarare in conferenza stampa di essere se stesso e non un clone. Lo deve fare perché si è sparsa la voce mediatica che la sua lunga assenza dal paese per una malattia, curata a Londra, fosse dovuta non alla sua convalescenza ma alla sua morte, che sarebbe stata poi occultata tramite un clone. Curioso anche il modo con cui il presidente nigeriano conferma la propria identità in una conferenza stampa tenuta in Polonia: “Son davvero io, ve l’assicuro”, ha dichiarato.
Non so nulla della politica nigeriana e dei complotti che il presidente ha ovviamente accusato. Tuttavia, la notizia fa riflettere su fake news, identità e rivoluzione tecnologica. L’interessante della vicenda è che la “balla” questa volta prende una piega tecnologica: non un sosia ma un clone. Perché ci sembra più probabile che sia un clone? Perché le nozioni di tecnologia sono vaghe, la questione della possibilità o meno di avere cloni incerta e il comportamento di un clone occulto. Per creare una menzogna niente di meglio dell’indeterminato, che per natura viene prima del vero e del falso, e che quindi li permette entrambi. La vaghezza è una ricchezza di possibilità ma può essere usata nel bene e nel male.
Il secondo lato interessante è che per smentire la balla il presidente nigeriano si appelli alla fiducia. Credetemi, dice il presidente. Eh già, infatti, come si dovrebbe uscire dal vicolo cieco dell’accusa di essere un clone di se stessi? Il clone si comporta nello stesso modo, sa e dice le stesse cose. A che cosa fare appello? E come distinguere un appello umano da un appello clone? Qui si apre la vera questione dell’umano, il livello in cui ci distingueremo sempre dai cloni e dai robot. Non nell’oggetto – in questo caso il presidente – ma nel soggetto. L’appello alla fiducia, infatti, comporta il chiamare in causa il ragionamento umano che usiamo di fronte ai fenomeni nuovi e inattesi o più semplicemente alle persone che incontriamo per la prima volta: si chiama abduzione o retroduzione e implica il passaggio dal conseguente all’antecedente.
Per fidarci di qualcuno, soprattutto se strano o accusato di stranezza, leggiamo i piccoli segni iconici del viso, del corpo, del tono di voce, della posizione nello spazio e altri segni simili: ne diamo una rapida lettura estetica che ci fa inserire la persona bizzarra che incontriamo in un ordine delle cose. E’ un principio estremamente sofisticato e non meccanico, che non si può formalizzare. Lo si usa nelle grandi scoperte scientifiche, nella creatività artistica, nel lungo apprendimento infantile e nella capacità di fidarsi. Per battere l’accusa di essere un clone, istintivamente, facciamo appello alla capacità più umana, quella per cui ci dovremmo riconoscere vicendevolmente. Che cosa sia poi questo “io” e che cosa diciamo quando diciamo “io” rimane uno degli argomenti filosofici e umani più acuti come diceva Leopardi (“ed io che sono?”), ma comunque la si possa girare, la distanza con i robot, anche sostenuti da intelligenza artificiale, resta logicamente incolmabile.