Paura da sottomissione tecnologica? Premi un pulsante
Un saggio racconta che prima dell'intelligenza artificiale e dei robot che ci rubano il lavoro (ma quando?) c'erano i premitori di bottoni. Dagli ascensori all'iPhone
Milano. Prima dei computer e delle intelligenze artificiali, prima dei robot che invariabilmente ci ruberanno il lavoro (ma quando avviene, questo furto? qui ancora si aspetta) e della quarta rivoluzione industriale, c’erano i premitori di pulsanti. Tra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, l’avvento dell’elettricità e di un’automazione più sofisticata avevano trasformato la produzione industriale dai telai meccanici da manovrare con esperienza a una questione di pulsanti da premere, e la vita della borghesia era cambiata un pulsante via l’altro. Con un dito si poteva chiamare l’ascensore e il servizio in camera dell’hotel, illuminare o riscaldare una stanza, lavorare comandando a distanza macchine o persone.
La rivoluzione, che portava comodità e servizi più rapidi, fu generalmente ben accolta, ma le proteste non mancarono, come racconta Rachel Plotnick, professoressa della Indiana University che sulla storia dei pulsanti ha scritto un libro (“Power Button: A History of Pleasure, Panic, and the Politics of Pushing”) e un saggio appena pubblicato su Aeon. Nel 1903, per esempio, il marchese De Castellane, nobiluomo francese, si lamentava del fatto che “Non è più necessario parlare per essere serviti… I pulsanti elettrici sono diventati i padroni del mondo, hanno accorciato le distanze, eliminato la necessità di pensare in maniera previdente e, per quel che conta, la necessità stessa di pensare”. I “pulsanti elettrici” ci hanno privato della manualità del gesto – ergo ci hanno inebetiti e resi più dipendenti dalle macchine – e del calore della relazione umana: quello che prima si faceva comunicando con un’altra anima, ora lo si fa pigiando un pulsante freddo. Ricorda qualcosa?
Se ripercorriamo le critiche che sono state fatte all’innovazione tecnologica nell’ultimo decennio, per esempio le critiche agli smartphone o le paure nei confronti dell’automazione, scopriremo che gli argomenti sono rimasti i medesimi da un secolo all’altro: instupidimento, sottomissione alla macchina, degradazione dei rapporti umani. Prendete la frase di De Castellane, sostituite la parola “pulsanti elettrici” con la parola “smartphone”, e avrete fatto una massima che potrebbe stare in bocca a Evgeny Morozov. Le preoccupazioni sulla disintermediazione dei pulsanti furono infondate allora, a meno che non si voglia considerare la Belle Époque come un periodo di rincretinimento tecnologico, e possiamo soltanto sperare che lo siano anche oggi.
Rimane, invece, l’ossessione per i pulsanti, che continuano a essere considerati come un male da superare anche nell’high tech di questi anni. Se un tempo erano visti come abilitatori di comodità eccessive, oggi sono un ostacolo. Nella fantascienza, la plancia di comando dell’astronave fitta fitta di pulsanti di qualche decennio fa è stata sostituita dai comandi vocali. E pensiamo allo smartphone: da apparecchi pieni di pulsanti su tutti i lati sono diventati tavolette di vetro e metallo quasi senza sbavature. Steve Jobs, si sa, per il suo iPhone voleva meno pulsanti possibile, nemmeno quello grosso centrale gli piaceva – ci sono voluti diversi anni per eliminarlo con l’iPhone X, molto dopo la morte prematura di Jobs. E giusto ieri, un’azienda cinese ha presentato un prototipo di smartphone senza pulsanti. Nemmeno quello di accensione.