Intelligenza artificiale, il meglio deve ancora venire
Non fatevi fregare dai catastrofisti. L’AI ha generato paure nevrotiche e fantascientifiche. Ma se ci liberiamo dalla fuffa, scopriremo che siamo entrati in una nuova èra di opportunità
Il grido di allarme è stato lanciato qualche mese fa: winter is coming. Non era l’annuncio di un’invasione di popoli dei ghiacci, come nella serie “Game of Thrones”, ma forse qualcosa di ancora peggiore: ci siamo sbagliati sull’intelligenza artificiale. Proprio nel momento in cui l’AI (permetteteci di chiamarla così, da Artificial Intelligence) era diventata mainstream e di moda e che dopo un enorme sforzo di comunicazione tutti, dai governi ai cittadini, avevano cominciato a crederci davvero, arriva un gruppo di ricercatori scettici a dirci: aspettate, c’è stato un errore, le promesse mirabolanti che vi avevamo fatto sull’AI sono tutte da rivedere.
L’inverno dell’AI non è una definizione qualunque: è lo spauracchio di tutti i ricercatori che si occupano del campo. E’ dagli anni 50, dai tempi pionieristici di Marvin Minsky, che la ricerca segue un andamento ondulatorio. Alcuni anni di entusiasmo attorno a una nuova tecnica per avvicinare il pensiero delle macchine a quello degli uomini sono invariabilmente seguiti da molti anni di “inverno”: le possibilità di sviluppo della tecnologia si esauriscono, i ricercatori perdono fiducia; soprattutto, i fondi si assottigliano, e tutte le speranze per ottenere una vera intelligenza artificiale – un’intelligenza artificiale generale, che abbia facoltà simili a quelle del cervello umano – entrano in letargo, in attesa di una nuova scoperta. Durante il corso di questo decennio, la tecnologia che ha risvegliato le speranze dei ricercatori è stata il deep learning, una tecnica di intelligenza artificiale che simula il funzionamento del cervello attraverso la costruzione di reti neurali. Il deep learning aveva mosso i primi passi negli anni Novanta, ma solo negli anni Dieci di questo secolo è diventato dominante.
I progressi sono stati enormi e rapidi, e in poco tempo l’intelligenza artificiale è diventata la “next big thing”, la tecnologia su cui puntare per scatenare una nuova ondata di innovazione. Per la prima volta nella storia si è parlato di intelligenza artificiale nei talk show e nei telegiornali, e nell’opinione pubblica si sono formate aspettative (l’AI ci aprirà le porte di un futuro più prospero e ci consentirà di dormire in macchina mentre viaggiamo) e paure (l’AI ci ruberà il lavoro). Questi sentimenti sono stati amplificati dalle dichiarazioni roboanti degli esperti. Ray Kurzweil, ricercatore eminente e capo degli ingegneri di Google, ha detto un paio di anni fa che le macchine avranno intelligenza come quella degli uomini entro il 2029. Andrew Ng (pronuncia: ing, con la i che si sente poco e g dolce), che è stato il fondatore di DeepMind, il capo dell’intelligenza artificiale della cinese Baidu e ha reso famoso lo slogan “l’AI è la nuova elettricità”, scrisse su Twitter che un lavoro complesso come quello del radiologo era già diventato obsoleto, visto che le intelligenze artificiali potevano già analizzare le radiografie polmonari meglio di un medico umano. Elon Musk promise che la macchina che si guida da sola, alimentata da sofisticatissimi algoritmi di deep learning, sarebbe arrivata prima della fine del decennio.
Dichiarazioni così esplosive non hanno fatto che aumentare l’eccitazione e il timore. Ma poi è arrivato il grido d’allarme: l’inverno sta arrivando.
Il tam tam tra gli studiosi c’era già da tempo, ma il primo a parlare del tema in un articolo che è diventato virale è stato l’anno scorso il ricercatore Filip Piekniewski. Il titolo era: “L’inverno dell’AI è già piuttosto avanzato”, e vi si leggeva che tutta l’eccitazione attorno all’intelligenza artificiale era una bolla. Le dichiarazioni sbruffone di Andrew Ng sui poveri radiologi? Sono state smentite da un team di ricercatori di Stanford, l’AI è molto peggiore degli umani a leggere le radiografie. Le automobili che si guidano da sole? Nonostante le promesse, ci metteranno ancora anni, forse decenni ad arrivare, e nel frattempo le sperimentazioni sono diventate pericolose. Il problema è che il deep learning non riesce più a “scalare”: dopo aver ottenuto risultati strepitosi nei primi anni di ricerca, adesso sembra invece che dalla tecnologia si sprema sempre meno innovazione. Siamo riusciti a ottenere un altissimo livello di automazione nelle automobili, ma non è abbastanza per fare in modo che queste si guidino da sole, e soprattutto che riescano ad avere contezza dell’ambiente che sta loro intorno: le vetture automatiche riescono a guidare su strade sgombre, ma non sono in grado di gestire l’imprevedibilità della vita reale. Abbiamo dato alle macchine la facoltà di comprendere il linguaggio naturale, ma non è abbastanza per farle conversare normalmente. Il deep learning è potentissimo, ma non riesce a fare il passo decisivo, e forse non ci riuscirà mai.
Da quel momento è stata una valanga. I migliori scienziati hanno detto che sì, in effetti la ricerca sul deep learning non è più fertile come pochi anni fa, Andrew Ng ha abbozzato sui radiologi, e hanno cominciato a uscire dichiarazioni come quelle di Klaus Froehlich, capo del settore Ricerca e sviluppo di Bmw, che ha detto: “Nell’industria tutti sono sempre più nervosi per il fatto che sprecheranno miliardi di dollari”, mentre Andrew Moore, il capo della Cloud AI di Google, ha detto che “l’intelligenza artificiale non è una polverina magica”. Come a dire: abbassate le aspettative.
E dunque dopo averci illuso – e averci promesso un futuro magnifico e terribile fatto di macchine intelligenti – adesso ci dicono che è stato un errore? Forse la bolla sta davvero per scoppiare, ma l’AI è già nelle nostre vite ed è destinata a rimanerci. E anzi, adesso che lo spauracchio di macchine superintelligenti è stato allontanato di qualche altro decennio, il bello dell’intelligenza artificiale è appena cominciato, e l’inverno in realtà è una primavera.
Mettiamola così: l’intelligenza artificiale generale, quella capace di rivaleggiare con le facoltà intellettive di un essere umano, per ora è fuori portata. E’ difficile che nel prossimo decennio avremo macchine che davvero si guidano da sole. Non riusciremo a parlare con Alexa nel modo fluente con cui parliamo con un’amica. Comprendiamo la delusione, specie per quanto riguarda l’auto che si guida da sola. Tutti avevamo sognato di poter fare il tragitto casa-lavoro sonnecchiando o guardandoci un film in tangenziale. Riprendiamoci dal trauma, poi guardiamoci attorno con occhi nuovi. Scopriremo che, dopo aver spazzato via i falsi entusiasmi, il meglio deve ancora venire.
Alessandro La Volpe, che è responsabile per il business cloud e di intelligenza artificiale per Ibm Italia, in una conversazione recente ci ha detto che “siamo davanti alla primavera dell’intelligenza artificiale”. La Volpe non ignora il dibattito in corso, ma Ibm è un’azienda che si occupa soprattutto di business ed è consapevole che c’è ancora così tanto lavoro da fare con l’intelligenza artificiale che non c’è tempo per crucciarsi se non riusciremo a chiacchierare con Alexa (o con Watson). Kai-fu Lee, tra i massimi esperti di AI ed ex capo di Google Cina, nel suo ultimo libro “AI Superpowers” ha scritto che finora siamo stati nell’“èra della scoperta”, in cui una ristretta élite di studiosi ha spinto in avanti il progresso. Adesso che la scoperta comincia a rallentare, arriva l’“èra dell’implementazione”. Finora, l’intelligenza artificiale è stata tutta teoria: decine di migliaia di paper scientifici, belle dimostrazioni su computer che battono i campioni umani a scacchi, a Go, ai videogiochi, e molti proclami che, come abbiamo visto, spesso erano un po’ troppo sbruffoni. Ma adesso abbiamo tra le mani tecnologie potenzialmente rivoluzionarie, è ora di farle passare dal laboratorio alla realtà, di prendere quegli straordinari elementi di progresso che hanno consentito alle macchine di battere il campione del mondo di Go e portarli nelle aziende e nella società, di trasformarli in un motore di crescita economica e di miglioramento della vita. L’AI generale è lontana, ma nonostante questo ancora non abbiamo visto il fondo degli enormi benefici che l’intelligenza artificiale può portare alla società.
“Ci siamo costruiti un’idea dell’intelligenza artificiale presa dalla narrazione della Silicon Valley e ci siamo lasciati sedurre dal sogno di un’AI sovrumana. In realtà, di fronte a un problema per il quale non è stata addestrata l’AI non può dare risposte, almeno per ora”, dice Stefano Quintarelli, imprenditore tecnologico ed esperto del tema, che in un suo libro del 2015 (“Costruire il domani”) già si dichiarava scettico davanti all’entusiasmo per il deep learning. “Ma ci sono infiniti problemi già noti in cui l’AI può costituire un cambiamento rivoluzionario. E’ una tecnologia che entra in tutte le aziende, in tutti i settori, e le possibilità sono enormi”.
Spogliarsi dalle false promesse significa capire che l’AI è una macchina, esattamente come lo è una lavatrice. Sa fare alcune cose meglio degli esseri umani e con più comodità, ma non tutte. Inoltre, di tutte le macchine che abbiamo, l’AI è in assoluto la più potente, e dobbiamo ancora immaginarci come sfruttarla a dovere. “Non ci stiamo dirigendo verso un’AI generale”, dice Benedict Evans, stratega tecnologico di Andreessen Horowitz. “Ma abbiamo avuto una gigantesca, profonda e significativa svolta nel machine learning, che presto entrerà in tutti gli ambiti”.
In quali campi l’AI è più brava degli esseri umani? E’ più brava nell’analizzare enormi quantità di dati e riconoscere similitudini (pattern) e anomalie, e a prevederle di conseguenza. Sembra una piccola qualità, ma questo significa avere un impatto straordinario in tutti i compiti che richiedono percezione e ripetitività. L’AI non sarà in grado di creare una campagna pubblicitaria per una casa di moda, ma è in grado di controllare alla velocità della luce se sul tessuto di un capo sartoriale c’è un filo tirato. Non sarà in grado di conversare, ma è già stato dimostrato che un’intelligenza artificiale ben addestrata può prendere appuntamento con il parrucchiere. Logistica, telecomunicazioni, settore energetico, finanza, elettronica di consumo, salute, agricoltura: c’è un po’ di rivoluzione per tutti.
Non bisogna disperare nemmeno per le automobili. Google di recente ha annunciato l’apertura di una fabbrica in Michigan per la produzione di massa di vetture con livello di automazione 4. Significa che riusciranno a guidarsi in buona parte da sole, ma avranno bisogno dell’intervento di un guidatore umano nelle manovre più difficili. Niente sonnellini in tangenziale, ma questo è un sogno rispetto all’evoluzione dell’industria automotive anche soltanto dieci anni fa.
E le possibilità sono infinite: secondo un rapporto di McKinsey, nel 2017 il livello di “assorbimento totale” delle tecnologie di intelligenza artificiale da parte delle aziende nel mondo era circa del 7 per cento. Significa che il 90 per cento delle aziende deve ancora trasformare l’AI in un’occasione di business – secondo il rapporto, il livello di assorbimento arriverà al 50 per cento entro il 2030. E’ questa l’“èra dell’implementazione”: quel momento magico in cui si comincia a vedere i frutti di due decenni di ricerca, e in cui la ricerca si trasforma in ricchezza e progresso (+16 per cento di pil mondiale in 10 anni, sempre secondo McKinsey).
E i posti di lavoro? Per anni si è detto che le intelligenze artificiali e i robot li ruberanno agli indifesi esseri umani. Avere ridimensionato le aspettative sull’AI dovrebbe rassicurare i lavoratori (i radiologi senz’altro esultano), e in effetti di recente le previsioni catastrofiste su miliardi di disoccupati colpiti dall’avanzamento tecnologico sono state anch’esse riviste in chiave ottimista. Non soltanto molti lavori non saranno sostituiti (fino a un paio d’anni fa si diceva che i guidatori di tir sarebbero stati spacciati, adesso è tutto più incerto), ma il “reskilling” comincia a funzionare. Una ricerca di Cognizant uscita pochi giorni fa ha mostrato come i “mestieri del futuro”, quelli cioè al riparo dall’automazione, siano aumentati del 68 per cento negli Stati Uniti l’anno scorso, a un tasso di crescita molto più alto del resto del mercato del lavoro. Rimangono incognite per esempio sui salari, ma per ora sembra che la Quarta rivoluzione industriale non sarà uno sterminio di posti di lavoro. Inverno o primavera che sia, l’AI ha appena cominciato a fiorire.