Rassegniamoci a vivere nell'èra della distrazione, smartphone alla mano
Venticinque anni fa Sven Birkerts profetizzava un mondo privo di profondità, che ha perso la consuetudine alla lettura
Milano. In un libro uscito il mese scorso negli Stati Uniti che sta facendo molto parlare di sé, la professoressa Shoshana Zuboff scrive che quando Google è stato fondato, nel 1998, le strutture dell’economia e il tessuto della società hanno subìto un mutamento irreversibile. Siamo passati dall’èra del capitalismo manageriale all’èra del capitalismo di sorveglianza (così si chiama il librone: “The Age of Surveillance Capitalism”), e da quel momento tutto è cambiato. Zuboff si occupa soprattutto delle strutture dell’economia e dei rapporti di potere tra utenti e giganti di internet, ma venticinque anni fa, nel 1994, dunque quattro anni prima della fondazione di Google e quando ancora internet era una novità per un gruppo ristrettissimo di appassionati americani, un autore annunciava profeticamente l’avvento di un’altra èra: quella della distrazione.
L’autore è Sven Birkerts, la profezia è contenuta nel suo libro più celebre, “The Gutenberg Elegies”, e l’anniversario del venticinquesimo è stato ricordato in un articolo di questo mese sulla Paris Review. Birkerts, quindici anni prima del primo iPhone, annunciava che l’avvento del digitale ci avrebbe portato in un’èra di distrazione, di immaginazione debole e di superficialità. Lo faceva partendo dalla più abituale tra le azioni profonde: la lettura.
In un’epoca in cui l’attenzione è sempre contesa, con la consuetudine alla lettura viene a mancare progressivamente la predisposizione mentale alla lunga durata. “La letteratura è piena di significato non soltanto come contenuto che può essere astratto e riassunto, ma come un’esperienza. Mediante il processo della lettura usciamo dalla comprensione abituale del tempo, segnata dalla distrazione e dalla superficialità, ed entriamo nel regno della lunga durata”. Prima che internet diventasse lo strumento ubiquo che è oggi, Birkerts parlava della lunga discesa in un’età superficiale, e invocava la resistenza alle lusinghe del digitale.
Venticinque anni dopo, sembra che il mondo sia pieno di prove empiriche della profezia di Birkerts. Gli adulti si lamentano che i ragazzi non sanno più concentrarsi. I professori dicono che gli studenti hanno una soglia d’attenzione così bassa che fare lezione è impossibile. Gli informatici trascorrono metà del loro tempo a ridurre i lag, i rallentamenti di un software o di una app, perché sanno che se gli utenti si trovano ad aspettare una frazione di secondo di troppo poi passano alla concorrenza.
I funzionari dell’intelligence americana farciscono i documenti riservati al presidente degli Stati Uniti su importanti temi di sicurezza nazionale con le parole “Donald Trump”, nella speranza che lui, leggendo spesso il suo nome, tenga alta un’attenzione che di solito evapora dopo poche parole. L’età della distrazione colpisce anche le attività ludiche, e per esempio quante volte è capitato di discorrere con un conoscente del seguente tema: da quando guardo le serie tv la mia soglia d’attenzione si è ridotta ai 40 minuti di una puntata; se guardo un film dopo un’ora mi addormento o comincio a guardare Facebook dal cellulare. E, ovviamente, in tutto il mondo occidentale il tempo dedicato alla lettura – di libri, romanzi, saggi, non di status su Facebook – è in declino costante.
Queste sono osservazioni aneddotiche, che hanno lo stesso valore di dire: ai miei tempi i pomodori erano più saporiti. Potrebbero essere smentite da altre correlazioni, come il dato interessante per cui le librerie indipendenti spuntano come funghi in tutto l’occidente, le vendite di libri sono in aumento in molti paesi, e l’avvento dell’ebook non ha disintegrato l’industria editoriale come si temeva fino a pochi anni fa. La ricerca scientifica è in gran parte inconcludente, perché gli scienziati si pongono domande più specifiche di quanto non siano le nostre ansie, anche se di tanto in tanto qualche ricerca suscita enorme interesse, come quella secondo cui la mera presenza di uno smartphone nelle vicinanze del suo proprietario riduce produttività e attenzione.
Gli ultimi sviluppi dell’èra digitale sembrano inoltre volerci portare via un’altra di quelle attività capaci in sé di creare un approfondimento della coscienza: la scrittura. La settimana scorsa l’azienda OpenAI si è rifiutata di rilasciare il codice di un’intelligenza artificiale che scriveva articoli di giornale così indistinguibili da quelli scritti da un giornalista umano che, se affidata alle mani sbagliate, avrebbe provocato un’apocalisse di fake news. Le preoccupazioni di OpenAI riguardavano la salute pubblica, ma pensiamo alla salute dell’individuo, che dopo aver perso la consuetudine alla lettura potrebbe perdere anche quella alla scrittura. Il rischio è duplice. Da un lato andiamo verso un mondo in cui i lettori saranno tecnicamente in grado di leggere “Madame Bovary”, ma non di goderne. Dall’altro, andiamo verso un mondo in cui non sarà più possibile produrre qualcosa di simile a “Madame Bovary” (potremmo dire: ci siamo già dentro da più di un secolo. Chi mai potrebbe sognare di avvicinarsi anche un po’ a Flaubert?).
Il fatto è che questa mutazione non è opzionale. L’asticella dell’attenzione della società non tornerà ad alzarsi disiscrivendosi dai social media. E la migliore speranza è che l’èra della distrazione possa proporre qualcosa di nuovo, che riguardi per esempio qualità che si vanno affinando, come velocità e intuizione. Nel 2015 lo stesso Birkerts pubblicò un nuovo libro in cui raccontava il suo avvicinamento travagliato e un po’ rassegnato alla tecnologia. Oggi usa Twitter tutti i giorni. Ha poco più di 4.000 follower.