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La protesta cinese contro “996” scatena una crisi di coscienza in occidente

Eugenio Cau

Che fine ha fatto lo spirito predatorio della Silicon Valley?

Milano. Da qualche giorno i lavoratori delle industrie tecnologiche in Cina sono in rivolta. Non organizzano proteste di strada, ovviamente, ché quelle in Cina portano male, ma comunicano tra loro sulle piattaforme di programmazione per lamentarsi del cattivo trattamento che ricevono dai loro datori di lavoro, che spesso sono i giganti del tech orientale: Alibaba, Pinduoduo, Huawei. La protesta è tutta dettata da una sigla, 996, che riassume gli orari di lavoro molto intensi delle compagnie tech. Dalle nove di mattina alle nove di sera, per sei giorni a settimana: 996.

 

La protesta ha creato molto scalpore, per diverse ragioni. Anzitutto perché gli ingegneri che l’hanno organizzata sono stati molto furbi: non l’hanno inscenata su Weibo, dove potrebbe essere censurata in men che non si dica, ma su Github, una piattaforma collaborativa molto usata dai programmatori di tutto il mondo, che le aziende non possono far chiudere come un Facebook qualsiasi. Così la protesta si è diffusa ed è diventata argomento di dibattito che riguarda da un lato il mito celebre della produttività cinese (mito che spesso è stato un cliché razzista) e dall’altro le stesse ambizioni globali delle grandi multinazionali dell’economia digitale cinese.

 

Jack Ma, il fondatore di Alibaba, ha difeso il 996 (nella sua affiliata Ant Financial l’orario di lavoro è ancora più lungo: 9106) come una “enorme benedizione”: “Se entrate in Alibaba dovete essere pronti a lavorare 12 ore al giorno… Non vogliamo qui chi vuole starsene comodo e lavorare otto ore”. Richard Liu, fondatore di JD.com, ha detto “gli scansafatiche non sono miei fratelli!”. (Liu è appena stato accusato di stupro da una studentessa del Minnesota, fra l’altro). Tutte le compagnie cinesi hanno storie fondative che riguardano un’etica lavorativa sovraumana: i primi dipendenti di Alibaba erano chiusi notte e giorno in un appartamento ad Hangzhou a condividere gli spazzolini da denti, Richard Liu racconta che lui non dormiva mai più di due ore per poter fornire servizio continuo, a Huawei ancora ricordano con orgoglio i bei tempi in cui ognuno aveva una brandina piegata sotto alla scrivania, per fare nottata.

 

Ma ancora più interessante del dibattito in Cina è la reazione occidentale alle proteste degli stressati lavoratori tech. Alcuni osservatori occidentali stanno con gli ingegneri cinesi: sfruttare gli impiegati senza pagarli, dicono, è un metodo di competizione indebita di quell’aguzzino di Jack Ma e dei suoi sodali. Altri tuttavia ricordano che il mito dell’iperproduttività nel mercato digitale non è nato in Cina. Le storie fondative di Huawei e di Alibaba sono state modellate attorno alla leggenda del garage di Bill Gates, alle hackathon notturne di Mark Zuckerberg e ai ritmi forsennati imposti da Steve Jobs ad Apple. Prima che la Cina diventasse ossessionata con l’iperproduttività, lo era la Silicon Valley, dove in nome della massimizzazione del tempo lavorativo sono stati inventati pasti liquidi per non doversi alzare dalla scrivania per prendere un panino, pillole di caffeina, microdosi di lsd per garantire prestazioni elevate. E prima ancora che la Silicon Valley diventasse ossessionata con l’iperproduttività, lo era Wall Street – e lo è ancora oggi.

 

C’è perfino chi ricollega il 996 con quell’inquietante sensazione che da qualche tempo assilla i leader dell’industria innovativa occidentale: ci sentiamo tallonati, i cinesi ci stanno per raggiungere e superare, e non perché le loro tecnologie siano migliori, ma perché sono più disposti al sacrificio e all’abnegazione, esattamente come eravamo noi un tempo. Bill Bishop, imprenditore e grande esperto di Cina, ha scritto su Twitter che un’etica del lavoro sovraumana è necessaria “se vuoi costruire una compagnia di livello mondiale”. Nel libro “Chaos Monkeys”, Antonio García Martínez racconta che nel suo primo giorno come programmatore di Facebook andò in bagno e sentì da dietro alla porta di una latrina il rumore di qualcuno che batteva le dita sulla tastiera: era un ingegnere che continuava a programmare anche sul gabinetto.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.