Carole Cadwalladr, la giornalista d’inchiesta dell’Observer che ha svelato al mondo il caso Cambridge Analytica (foto LaPresse)

Lo strapotere del web

Marianna Rizzini

Il difficile rapporto tra internet e la democrazia. Ingerenze, fake news, rischi e pericoli dei social network. Dibattito sul “chi siamo e dove andiamo” a questo punto della rivoluzione digitale

La foto dello spazio scuro con la ciambella di luce sfuocata verso l’oscurità ancora più grande l’abbiamo vista, ma l’altro buco nero no, è impossibile vederlo, anche se viene evocato tutti i giorni, minaccia latente ma non più così impalpabile: “Buco nero” del web è l’espressione usata quando qualcosa riporta sulla scena i protagonisti immateriali e materiali del dubbio-mistero-dilemma ricorrente che gira attorno ai social network e al web, in cui sono nati, cresciuti, esplosi e forse a tratti implosi per poi rinascere sotto altre forme. Di chi è la colpa, ci si domanda, chi ha fatto finta di non capire, chi sapeva e non ha parlato, chi potrebbe fare e non fa, chi minimizza i problemi in nome del progresso, come se nominare il problema cancellasse il progresso. Ma qualsiasi domanda, alla fine, si ferma davanti allo stesso muro: anche identificando un responsabile, il mezzo resta comunque in qualche modo imprendibile, e non soltanto perché non è neutro come sembrava, ma perché la sua globalità, irrinunciabilità e pervasività rende tutti almeno un po’ corresponsabili. E se lo Sri Lanka chiude i social dopo gli attentati – sperando che la rabbia epidermica che corre on line e le fake news che nella rabbia sguazzano non si sovrappongano all’emergenza – l’Italia, con governo tutto in mano a forze populiste, si interroga sul “dove siamo arrivati?” quando Luca Morisi, spin doctor del vicepremier Matteo Salvini, posta su Facebook una foto di Salvini con il mitra, al grido di “fanno di tutto per gettare fango sulla Lega, ma noi siamo armati e dotati di elmetto”. E’ solo l’ultimo caso che conferma il dato empirico: la politica non può più fare a meno del web, anche se proprio il web è stato ed è, in tutto il mondo, megafono di antipolitica. E infatti nei paesi anglosassoni, non da oggi, e non senza sgomento, si riflette sulle conseguenze del caso (un casuale e distratto “like” su Facebook, per esempio), e sul fatto che un messaggio anche falso, veicolato via social a persone sensibili alla paura, come un “allarme invasione immigrati” che non è tale, possa diventare arma di propaganda o addirittura di eversione.

 

Il j’accuse della cronista Cadwalladr, la chiusura dei social dopo gli attentati in Sri Lanka, il post con Salvini e il mitra

Fino a poco tempo fa, il social network era descritto come il superpotere benigno dell’interconnessione, l’invenzione geniale della comunicazione, del ritrovamento, dell’immediato contatto. Affiorava, sì, a volte, quella strana sensazione che tutti proviamo quando dall’abisso del social rispunta qualcosa che ci appartiene e scatena un’emozione: in base a quale criterio e a quale algoritmo Facebook mi ritira fuori proprio la foto con neonato di otto anni fa?, ci si domanda, e perché mi sbatte in prima pagina sul diario proprio l’immagine della sera in cui ho preso la decisione che mi ha cambiato la vita? Sarà veggente, questo social network, viene quasi da pensare. Ma alcuni fatti recenti hanno rovesciato per sempre la prospettiva: non è una cosa buffa, quella sorta di “veggenza”, ci dicono analisti e Cassandre del lato oscuro della Rete (prima ignorate, ora ascoltate). Si guarda cioè con senso crescente di allarme e impotenza al ruolo ambiguo dei social network, anche per via di quella che è sembrata una distorsione del processo democratico nel caso Brexit e nell’elezione di Donald Trump, passando per l’amplificazione via web di complottismi e scontento verso un nemico spesso vago, ma sempre descritto in modo sommario come elitario e burocratico, anche se magari (vedi la Ue in Gran Bretagna) ha fornito fondi e sostegno. Ci si interroga sul discorso tenuto a Vancouver da Carole Cadwalladr, giornalista d’inchiesta dell’Observer, nota per aver rivelato al mondo che la società di profilazione elettorale Cambridge Analytica, al lavoro sia nella campagna di Trump sia in quella per Brexit, otteneva i suoi dati da Facebook. “Noi inglesi siamo la prova di quello che accade in una democrazia quando secoli di leggi elettorali sono spazzate via dalla tecnologia…”, ha detto Cadwalladr, descrivendo lo scivolare rapidissimo della meravigliosa scoperta (Internet) in “scena del delitto”. “Cari dèi della Silicon Valley, stavolta stavate dalla parte sbagliata della storia”, ha detto la giornalista chiamando per nome il padre di Facebook Mark Zuckerberg, convocato più volte invano per chiarimenti sul caso Brexit dal Parlamento britannico (con lettera aperta di altri nove paesi); Sheryl Sandberg, direttrice operativa del social sotto accusa; Larry Page e Sergej Brin, padri di Google, e Jack Dorsey, demiurgo di Twitter. Il referendum Brexit “si è svolto nel buio più assoluto perché si è svolto su Facebook, e quello che accade su Facebook resta su Facebook”, ha detto Cadwalladr raccontando del suo reportage da una cittadina del Galles in maggioranza pro Brexit (e inspiegabilmente pro Brexit, visto il livello degli investimenti Ue nell’area e vista la scarsità di immigrati nella zona e visti i molti voti presi dai laburisti alle elezioni). In quel reportage, Cadwalladr aveva raccolto varie testimonianze sugli strani messaggi comparsi sulle bacheche Facebook di molti cittadini (messaggi falsi, tipo “76 milioni di turchi stanno per entrare nella Ue”). “Non abbiamo idea di quali annunci ci siano stati, di quale impatto abbiano avuto o di quali dati personali siano stati usati per profilare i destinatari dei messaggi. O anche solo chi li ha pagati, questi messaggi pubblicitari”, diceva.

 

L’antefatto di Tangentopoli (Rocca), la “Silicon Valley del populismo” (Da Empoli) e il boomerang del “debunking”

Si chiede dunque trasparenza, ma la parola “trasparenza”, se riferita al web, è parola di non univoco senso: può confinare con la censura o con altre forme di controllo. Soltanto cinque anni fa, ai tempi in cui pure cominciava scricchiolare il mito dei paladini del “pubblicare tutto” Julian Assange ed Edward Snowden, sembrava fantascienza il mondo descritto dallo scrittore Dave Eggers ne “Il Cerchio”: mondo distopico dove un’azienda del web, ircocervo un po’ Facebook e un po’ Google, si ergeva a modello di trasparenza. Trasparenti i muri (di vetro), trasparenti per contratto i comportamenti di impiegati e dirigenti, sempre connessi in tempo reale, collegati a monitor capaci di mostrare tutto ad altri ugualmente collegati, timorosi dell’ostracismo internettiano e quindi obbedienti: quanto hai camminato, quanto ti sei riposato, con chi hai conversato on-line, a chi hai inviato un tweet, chi ti ha messo un like. Paradiso e Inferno al tempo stesso, il “Cerchio”, da azienda privata, arrivava a ispirare il mondo politico che voleva emulare quella casa di vetro, aprendo allo sguardo dell’occhio globale parlamenti e ministeri, con politici auto-votati allo streaming perenne (e per quell’aspetto il romanzo, a noi, in Italia, era parso un po’ meno fantascientifico: Beppe Grillo aveva già ordinato ai suoi, in piazza e sul web, di aprire i Palazzi “come una scatola di tonno”, e già il progetto scricchiolava, ché i suoi neoeletti avevano mostrato i limiti della sedicente, e di fatto non trasparente, democrazia diretta dell’uno-vale-uno). Invenzione, quel luogo creato da Eggers, ma il disagio dell’omologazione e del livellamento a cui si sottoponevano i politici nel libro rifletteva già la realtà. L’altra faccia del discorso sulla responsabilità degli “dèi della Silicon Valley”, infatti, è quella dell’utente (cittadino, elettore) che non cerca più la competenza, sacrificata in nome dell’anticasta e del governo dal basso. E ora è minacciato proprio da Internet, scoperta che per molti aspetti ci ha liberati e da cui non si può tornare indietro, ma che presenta ambivalenze anche in prospettiva (se i non nativi digitali – che hanno conosciuto la rete a venti, trenta o sessant’anni – si trovano ora di fronte al problema dell’uso distorto dei social, che cosa faranno, se non si interviene, i figli e i nipoti nativi digitali?). “Avevano ragione gli entusiasti, ma anche gli osservatori prudenti della rivoluzione digitale”, dice Christian Rocca, editorialista della Stampa e autore di “Chiudete Internet. Una modesta proposta” (ed. Marsilio): “Gli uni e gli altri devono ora collaborare per contenere i danni”. Intanto, in Italia, ci si interroga, in ritardo, su qualcosa che avevamo di fronte già venticinque anni fa. Affondano in tempi pre-digitali, infatti, dice Rocca, “le radici offline del neopopulismo digitale, e in particolare nel meccanismo della gogna in tv, dal ‘Processo del lunedì’ fino ai talk-show che hanno dato voce al cosiddetto ‘popolo dei fax’, anticamera del commentatore di Facebook. Ed è nel 1993 di Tangentopoli che è iniziata la devastazione dell’opinione pubblica, poi completata attraverso l’opera di cancellazione dei corpi intermedi – senza i quali non ci può essere democrazia adulta – e nutrita con la retorica del popolo contro le élite”. Siamo “la Silicon Valley del populismo”, dice Giuliano da Empoli in “La rabbia e l’algoritmo” (ed. Marsilio). E se Rocca, più che una soluzione, intravede al momento una direzione “che passa per la rottura dei monopoli (Facebook e Google), per la difesa della concorrenza e per il cambiamento del modello di business delle grandi compagnie del web” (pagare per i dati? pagare le tasse?), per Da Empoli “i social vanno regolati per impedire gli abusi, sia nell’utilizzo dei dati degli utenti, sia nella diffusione di contenuti che incitano all’odio. A livello europeo lo si è già iniziato a fare e certamente altri passi saranno necessari. Però sarebbe un’illusione pensare che questo ci riporterà al piccolo mondo antico della Verità e dei Fatti con la maiuscola. Intanto perché quel mondo forse non è mai esistito. E poi perché nell’epoca delle news tagliate su misura – non solo le fake, anche tutte le altre – il vecchio monito di Daniel Patrick Moynihan non vale più: ormai ciascuno ha diritto ai propri fatti, non solo alle proprie opinioni”. Non a caso, c’è chi dice che le grandi compagnie del web debbano essere trattate come colossi editoriali. Girando la domanda sul “che fare” al presidente del gruppo Gedi Marco De Benedetti, emerge la necessità di colmare un gap temporale: “Da quasi un secolo, ormai, in Europa, in Nord America, in Giappone”, dice De Benedetti, “l’eccessiva concentrazione di potere è combattuta, da cui il ricorso ad autorità e normative antitrust. Ma in questo campo la legislazione è in ritardo, anche se le compagnie del web sono di fatto grandi monopolisti. Concordo con Carol Cadwalladr: il pericolo c’è. Se le grandi piattaforme non intervengono per eliminare le distorsioni – anche autoregolandosi – si rischia di vanificare il lato positivo della rivoluzione digitale. E’ anche loro interesse, intervenire: se si diffonde l’impressione che tutto sia manipolato, gli stessi social perderanno attrattiva”. “Internet è come Giano bifronte”, dice Giovanni Pitruzzella, ex presidente dell’Antitrust, giurista e avvocato: “Da una parte ci mostra il volto della grande rivoluzione che ha ampliato la sfera delle libertà, moltiplicato le opportunità di vita e aperto nuovi mercati: è la ‘Ricchezza della Rete’ di cui ha parlato Yochai Benkler. Ma a volte la Rete si fa terreno di nuovi conflitti sociali e minaccia per la democrazia. E allora dobbiamo ripensare lo statuto delle libertà ai tempi di Internet. Partendo da un presupposto: nella nostra tradizione politico-costituzionale siamo abituati alla tutela delle libertà nei confronti del potere pubblico. Ma, di fronte all’emersione di poteri privati che, per forza e diffusione, possono attentare alla libertà del singolo, la rule of law va applicata anche ad essi, per mantenere la ricchezza della Rete evitando l’abuso”.

 

Il nuovo “statuto delle libertà” secondo Giovanni Pitruzzella, e il ritardo normativo antitrust di cui parla Marco De Benedetti

Il dilemma di Internet non è più aggirabile: “Vietare per proteggere”, come sostengono di fare i censori del web (paesi autoritari come Cina e Russia)? O sopportare il rischio del caos in nome della libertà? In mezzo c’è il lavoro “storico” dei regolatori che in Europa e negli Stati Uniti “si preparano a trovare nuove regole per i social e le grandi compagnie tech”, ha scritto Eugenio Cau su questo giornale. Persone che devono, a monte, come forse tutti noi, porsi la domanda: “E’ possibile salvare l’idea universale di Internet dai danni provocati finora e dai profeti della chiusura digitale?”. Lungo questa linea di confine si schierano ottimisti e catastrofisti. Ma che cosa davvero sappiamo, di un mare magnum in cui coloro che vogliono fare “debunking”, smontare cioè le bufale del web con argomenti razionali, si trovano spesso a scontrarsi – come sottolineavano i ricercatori del CssLab della Scuola Imt Alti Studi di Lucca nel 2017 – con le “camere di risonanza o bolle sociali” da cui gli utenti non fuggono proprio perché trovano conferma ai propri pregiudizi, e anzi usano i post di “debunking” per rilanciare la notizia infondata? “E’ molto difficile”, dice il politologo Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera, “e forse non sarebbe neanche giusto, anche se è preoccupante, intervenire su persone che sul web tendono a chiudersi in ambienti in cui tutti la pensano allo stesso modo. Qualcosa invece si può fare per contrastare le fake news, potenziando gli altri canali di ‘buona informazione’. Le notizie false che hanno prodotto conseguenze negative ci sono sempre state: l’importante, adesso, è che la gente continui a sentire più di una campana. C’è poi chi si rifiuta di sentirla, per esigenze psicologiche che hanno a che fare con la percezione della propria fragilità. E contro questa tendenza possiamo fare ben poco”. Ma può internet, nei suoi aspetti più oscuri, convivere con la democrazia liberale? “Intanto”, dice Panebianco, “si deve cercare di far coesistere – e credo che dopo questa fase di transizione si riuscirà a farlo – i sistemi di comunicazione tradizionali e i social media. Anche perché non è sui social che si formano le classi dirigenti, ma all’interno di sistemi educativi e mezzi di comunicazione che non hanno quell’immediatezza. I mezzi attraverso cui continueranno a formarsi le élite resteranno d’élite, ma alla fine di questa fase molto confusa si arriverà a un qualche equilibro. E forse, per la Rete, non sarà più possibile vivere parassitariamente a spese degli altri mezzi”. 

  

Non sappiamo abbastanza sull’impatto sociale degli algoritmi della Silicon Valley, dice Juan Carlos de Martin

Ma sappiamo abbastanza per decidere se aspettare che si arrivi a un equilibrio o per intervenire in modo da indirizzare gli eventi? Per Juan Carlos De Martin, docente di Ingegneria informatica al Politecnico di Torino ed editorialista di Repubblica, molto è ancora ciò che non si sa: “Il fenomeno oggettivamente nuovo è che gli smartphone consentono alle grandi piattaforme digitali come YouTube e Facebook di raggiungere – tutti i giorni, da quando si svegliano a quando vanno a dormire – miliardi di persone in tutto il mondo. Gli algoritmi della Silicon Valley (e i loro analoghi cinesi, russi, ecc.) hanno quindi inevitabilmente un impatto sociale molto grande. Che tipo di impatto? La risposta più onesta è che complessivamente non lo sappiamo. I dati esistono, sono nella disponibilità delle grandi aziende digitali, ma non sono in generale accessibili dall’esterno. Questo deve cambiare se vogliamo ragionare seriamente e democraticamente di questi temi. Solo con un accesso ampio e indipendente ai dati, infatti, è possibile gettare luce su cosa sta capitando per poi decidere di conseguenza”. Ma c’è anche chi, come Fabio Chiusi – autore di “Io non sono qui. Visioni e inquietudini da un futuro presente. Black Mirror” (ed. De Agostini) e, anche su valigiablu.it, di articoli sul tema delle “dittature dell’istantaneo” – contesta in blocco la premessa che si debba agire ora contro una rete minacciosa. “L’unica risposta onesta è questa: non abbiamo abbastanza dati certi sull’effetto che fa Internet alla democrazia. L’opposta retorica di Internet buono-Internet cattivo non aiuta. Il male del mondo esiste, ovviamente anche su Internet, e il problema dell’eventuale regolamentazione ci riguarda tutti, ma non può essere oggetto di polemiche strumentali, visto che è in gioco la libertà di espressione. Si investa allora in studi seri sugli effetti dei social sulla democrazia”.

 

Cancellarsi dai social “perché si diventa peggiori”, autoassolversi dando la colpa al web, tassare e tassarsi (più amici hai, più paghi)

Governare il “dilemma di Internet” anche a livello psicologico, questo è (l’altro) problema. Lo sanno, intanto, i genitori degli adolescenti sempre connessi, al limite della dipendenza, lungo le vie di quelle che Carol Cadwallad chiama “le scatole nere”. Educazione e responsabilità, è questa la chiave? Alfonso Fuggetta, autore di “Cittadini ai tempi di internet”, (ed. Franco Angeli), docente al Politecnico di Milano, intravede “un maggior rischio di manipolazione laddove le persone sono meno consapevoli”, e in un post su Medium, qualche giorno fa, ha raccontato di quando si era cancellato dai social network perché lo “stavano rendendo peggiore”: “Mi sentivo prendere sempre più dalla rabbia, dal conflitto, dall’acrimonia che troppo spesso traspare su Twitter e Facebook. E’ una gara a prevaricare, a schernire, a volere a tutti i costi contrastare chi ti sta di fronte. Non sopporto più le frasi buttate lì con noncuranza, il disprezzo per chi studia e lavora, la superficialità di chi scrive solo perché ha una tastiera, e di chi vive questo mondo solo come uno sfogatoio…”. Vallo a dire alla parte di elettorato gialloverde (e non solo) che ha eletto la bacheca densa di rabbia a unico verbo possibile. Autoregolarsi e regolare, ma “a patto che non si scivoli nello stato etico, affidando a qualcuno il potere di decidere che cosa può stare e che cosa non può stare on line”, dice Stefano Quintarelli, imprenditore, informatico, autore di “Capitalismo immateriale: Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale” (ec. Bollati Boringhieri) ed ex parlamentare per Scelta Civica che, sul suo blog, ha avanzato una proposta ” a costo zero” contro la diffusione delle fake news. Primo punto: “Limitare il numero di amici sui social che un utente non pagante può avere: diciamo cento. Ne vuoi di più? Devi pagare qualcosa” (per poter verificare più facilmente l’identità). E poi: “Limitare la platea raggiungibile dalle condivisioni di post, per esempio agli amici degli amici” e introdurre “un tempo di latenza” nella visibilità dei post ri-condivisi.

 

I nati negli anni Settanta che hanno visto il prima e il dopo, e rimpiangono “la qualità del dibattito” pre rivoluzione digitale

Ma che cosa dicono, intanto, le grandi compagnie? La Commissione Europea tiene gli occhi su Google, Facebook e Twitter, specie dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, anche se recentemente ha lodato “gli sforzi compiuti nell’aumentare la trasparenza in vista delle elezioni europee”. E Google Europa ha pubblicato una serie di articoli sul tema del “contrasto alla disinformazione” per un più “sano ecosistema on line”. Ma c’è chi invita alla cautela normativa. Innocenzo Genna, giurista esperto di regolamentazione europea del digitale, ha un approccio più “garantista” verso le grandi piattaforme: “Internet è uno strumento ‘disruptive’, cambia radicalmente i processi, dai modelli di business alla comunicazione. Nel breve periodo vi possono essere più vittime e danni che vantaggi”. In questo contesto, dice Genna, “se Internet sia qualche cosa di buono per la democrazia è un fatto di punto di vista, dipende dallo stato di partenza e da quale sia lo status quo da difendere. In Iran è molti altri paesi dispotici Internet ha permesso circolazione di idee e notizie; ma nei paesi democratici ha messo sotto pressione i partiti tradizionali”. Bisogna tenere conto intanto, dice Genna, del fatto che “Internet e le piattaforme non sono la stessa cosa, soprattutto per quanto riguarda democrazia e comunicazione politica. Rispetto agli anni 2000, Internet è cambiato e si è focalizzato attorno ad alcune piattaforme online dominanti, che raccolgono gran parte del traffico (e dei dati) come fossero dei buchi neri. Per via degli effetti-rete la dominanza crea ulteriore dominanza. Alcune di queste piattaforme possono effettivamente avere un impatto per la democrazia, perché possono profilare gli utenti e massimizzare la circolazione delle notizie (vere o false che siano). Il problema per la democrazia, se c’è, è lì, non in Internet”. “La tentazione di intervenire è forte”, dice Genna, “ma non si impongano regole se non si è sicuri dell’analisi (ad esempio, come siano andate le cose con Brexit e con Trump non è completamente chiaro, dare tutta la colpa a Facebook mi sembra azzardato). La Brexit è arrivata dopo decenni di mala-informazione dei tabloid inglesi sull’Europa; in Italia vedo media e giornalisti che non hanno ritegno nello spargere notizie false o divisive. Accusare le piattaforme, quindi, mi pare a volte una forma di autoassoluzione sbrigativa”. E forse, dice Genna, anche la politica dovrebbe darsi delle regole: “Le attuali norme italiane sulla propaganda elettorale e sui finanziamenti ai partiti non si applicano chiaramente all’online, siamo nel Far-west (mi riferisco sia alla legge 515 del 1993, che regola lo svolgimento delle campagne elettorali, che alla 212 del 1956, che invece norma in concreto le propagande elettorali). Qualsiasi regola venga imposta deve poi tener conto della dominanza della piattaforma, per evitare una iper-regolazione che sconvolga piattaforme più piccole o Internet in generale. Nella pendente direttiva contro il terrorismo, per esempio, si chiede la rimozione di post terroristici entro un’ora (Facebook può farlo, ma gli altri?)”.

 

Sul fronte liberale, Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni (autore, su questo giornale, di una riflessione sulla necessità di “una costituzione per la Rete”), mette in guardia contro i pericoli di un “digitale di stato” e, in un articolo su Lavoce.info, si dice convinto che “che anche sul web sarà il mercato a fermare i monopoli”: “I giganti del web magari non garantiscono la privacy, non filtrano in tempo fake news e hate speech: ma siamo protetti, non hanno altro scopo che di fare soldi, se sbagliano, gli azionisti vendono e il titolo crolla, gli utenti abbandonano e gli analisti bocciano”. Massimiliano Magrini, imprenditore, già country manager di Google nei primi Duemila, co-fondatore di United Ventures e autore di “Fuori dal gregge, il pensiero divergente che crea innovazione” (ed. Egea), intravede l’antidoto alle degenerazioni della rivoluzione digital nella tecnologia stessa, che può aiutare “nello studio non superficiale di un possibile sistema di regolamentazione, ora necessaria a bilanciare opportunità e limiti del mezzo”.

 

L’uomo come “visione di robot” di Asimov, il “paradosso” di Zuckerberg al Congresso e il Salvini “creato in realtà dalla tv”

Sul fronte del “j’accuse” alle grandi piattaforme, Jacopo Jacoboni, giornalista della Stampa e autore di “L’esecuzione, Cinque stelle da Movimento a Governo” (appena uscito per Laterza), è amaramente sollevato “per il fatto di poter dire, a differenza di qualche anno fa, quando a ventilare un uso distorto di Internet da parte di alcune forze politiche si dovevano temere ondate di odio, che sì, abbiamo un problema: lo si è visto nel caso Brexit, nel caso Trump, in Italia ai tempi della campagna per il referendum costituzionale e durante quella per le Politiche 2018”. In “L’esecuzione”, Jacoboni parla dei collegamenti tra Brexit, elezione di Trump e ascesa di alcuni movimenti populisti in Europa, Cinque stelle e Lega compresi. “Solo che altrove si è corsi ai ripari”, dice: “In Gran Bretagna la National Crime Agency ha aperto un’indagine. E che Internet sia diventata scena del crimine lo dicono quattro inchieste parlamentari negli Usa e il Mueller Report, investigazione sull’ingerenza russa nelle presidenziali del 2016. E’ poco, ma è qualcosa: soltanto due anni fa, a sostenere quello che Kara Swisher ha scritto sul New York Times all’indomani degli attentati in Sri Lanka, e cioè ‘bene, hanno chiuso i social’, avresti avuto alle calcagne le groupie di Facebook”. La consapevolezza del pericolo, però, dice Jacoboni, “non porta a nulla se gli dèi della Silicon Valley continuano a rifiutare la responsabilità”. Anche Claudio Giunta, filologo e docente di Letteratura italiana a Trento, tirerebbe in qualche modo un sospiro di sollievo, come Kara Swisher, di fronte alla chiusura dei social network. Ed è pessimista, come molti dei nati negli anni Settanta che hanno visto il prima e il dopo, e notano la differenza: “Il progresso c’è”, dice Giunta, “ma se guardiamo all’atmosfera del dibattito e alla qualità delle idee tutto lascia pensare che prima le cose andassero meglio. Ma non c’è molto da fare, non credo che il pubblico dei social si possa davvero educare. Sui social emergono le pulsioni meno mediate, e nei social, visto l’accesso anche giustamente aperto, entrano e parlano persone che non hanno alcun tipo di educazione scolastica o hanno un’educazione lacunosa. Forse sono la maggior parte. Mi viene allora in mente il libro di Richard Rhorty “Take care of freedom and Truth will take care of itself”. Ecco, al punto in cui siamo oggi dico che forse non è così: l’idea liberale può ritorcersi contro se stessa. E il dibattito va bene tra persone che hanno pagato un prezzo per entrarci, sennò diventa pericoloso”.

 

Sulla terza via tra colpevolisti e innocentisti si colloca Francesco Cancellato, direttore de Linkiesta: “Dobbiamo avere un approccio estremamente laico. Una cosa è Internet, altra sono i siti privati. Facebook è una piattaforma di proprietà di Mark Zuckerberg, e da un lato fa specie che Zuckerberg sia stato sentito dal Congresso americano” (per una sorta di mea culpa ai tempi di Cambridge Analytica). “Se qualcuno ti offre servizi gratuitamente in cambio della cessione dei dati”, dice Cancellato, “e tu cedi volontariamente i dati, sai di correre dei rischi. C’è, però, un pericolo di interferenza degli algoritmi rispetto alla varietà di voci politiche. Parliamo di quanto Trump sia una minaccia, ma non si è sentito un solo progressista allarmato all’idea che in futuro, per esempio, Zuckerberg si candidi alla presidenza Usa. Sarebbe un Berlusconi al cubo, un Casaleggio al cubo. Quanto alla proliferazione di idee potenzialmente pericolose, sta a noi discernere quanto una minoranza, per quanto rumorosissima, possa condizionare. La maggior parte dei bombardamenti on line ha tempi brevi e scarso impatto. Impatto ce l’hanno alcune bufale artatamente diffuse, ma lì c’è un disegno”. Si parla molto del “disegno” di Luca Morisi, spin doctor di Salvini. “E una questione di cosiddetto ‘uso della bestia’”, dice Cancellato: “Morisi e Casaleggio sono stati tra i primi in Italia a capire l’enorme potenziale di Internet come mezzo di propaganda politica. E chi sa usare il mezzo ha il vantaggio iniziale. Dopodiché Salvini è sempre in giro, sempre in tv e sempre sui social, presente dal vivo o sull’uno o sull’altro mezzo 24 ore su 24. Sarebbe stata giudicata, un tempo, una tattica folle di ipertrofia comunicativa. E forse lo sarà, se e quando Salvini subirà un declino. E’ successo anche a Matteo Renzi, prima detto ‘il comunicatore’, poi criticato per la comunicazione”. La Rete come grande speranza “è stata ridimensionata in parte”, dice Damiano Palano, docente di Scienza Politica all’Università Cattolica, “ma una lettura totalmente negativa è semplicistica. Vero è che Internet, in politica, ha ridotto il divario tra chi si propone come outsider e chi occupa posizioni di potere, con un apparente paradosso. I regimi autoritari non sono stati indeboliti da Internet, cosa che invece è accaduta ai leader tradizionali nelle democrazie mature. Tutto sembra puntare nella direzione della trasformazione dei partiti in partiti piattaforma, tutto si riduce allo spazio di un post o tweet, non c’è più formazione della classe politica e si sconta l’assenza di progettualità. Grande limite, questo, che tutte le democrazie mature stanno sperimentando”.
L’uomo in questo quadro sembra inesorabilmente schiacciato, “visione di robot” come in un racconto di Isaac Asimov. Ma forse non tutto è perduto: “Sono dell’avviso che il pericolo non risieda tanto nei social quanto nella testa di chi li usa”, dice il politologo Giovanni Orsina, docente alla Luiss. “Il problema è la psiche del cittadino contemporaneo. Internet ti dà una possibilità di disintermediazione che devi voler cogliere. Il social amplifica l’effetto-recinto per chi vuole restare chiuso con quelli che la pensano come lui, senza sfruttare le possibilità di ampliamento-orizzonti. Ma alla fine è una bolla. Importante, ma limitata. E penso anche che Salvini, più che sui social, la fortuna se la sia fatta in tv. E continuano a invitarlo perché fa audience”. Siamo all’opposto della canzone “Video killed the radio star” dei Buggles, come se non fosse segnato il cammino dalla radio alla tv, dalla tv al web (e allo sfacelo). Autoconsolazione? Verità? Forse soltanto il primo sassolino lanciato lungo la via dell’inversione di rotta.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.