Meglio non credere alla passione per la privacy di Mark e Sundar
Google e Facebook promettono di difendere la riservatezza degli utenti. Ma il loro business di sorveglianza non è cambiato
Milano. Nel giro di pochi giorni l’una dall’altra, l’azienda della Silicon Valley che ha inventato il cosiddetto capitalismo di sorveglianza (Google) e quella che ne ha espanso i confini più di ogni altra (Facebook) hanno annunciato di aver scoperto il vangelo della privacy. Mark Zuckerberg di Facebook l’ha fatto alla fine di aprile alla conferenza annuale F8, quando ha detto trionfante che “il futuro è privato”, lui che qualche anno fa definiva la privacy come un valore sociale ormai obsoleto. Sundar Pichai di Google l’ha fatto martedì sera alla conferenza annuale della sua azienda, chiamata Google I/O, quando ha detto che “la privacy è per tutti”. Entrambi, Zuckerberg e Pichai, hanno presentato alle rispettive conferenze varie misure che avrebbero l’obiettivo di proteggere i dati degli utenti. In alcune circostanze, queste misure possono avere una certa efficacia. Facebook, per esempio, ha promesso di criptare molte conversazioni e attività sul suo social network. Google attiverà dei sistemi che consentono di cancellare i dati sulla posizione dopo un periodo determinato. Ma nessuno di questi accorgimenti rallenterà nemmeno per un attimo l’espansione dell’attività estrattiva di comportamenti, abitudini, rapporti, manie, affetti delle persone che Google e Facebook hanno usato per costruire due giganteschi imperi tech.
La ragione è molto semplice: se non possono utilizzare le persone come piantagioni da cui cogliere informazioni personali da rivendere agli inserzionisti pubblicitari, Google e Facebook muoiono. Questo significa che, a meno che le due aziende non riescano a rivoluzionare in maniera strutturale il loro modello di business, ogni serio tentativo di proteggere la privacy è un danno esiziale per loro. Poiché finora di danni non se ne sono visti, e anzi entrambe le aziende macinano utili a livelli record, le promesse di privacy non sono da prendere sul serio.
Martedì, alla conferenza Google I/O, la contraddizione è stata più evidente che mai. Allo stesso evento Google ha presentato le sue soluzioni per la privacy da un lato e dall’altro il suo rinnovato assistente virtuale, che ormai ha capacità di previsione dei comportamenti umani quasi sovrannaturali. Durante la presentazione Scott Huffman, vicepresidente di Google che si occupa dell’assistente, ha chiesto all’intelligenza artificiale: com’è il traffico per arrivare a casa di mamma? Google ha risposto correttamente. Hoffman ha chiesto anche: ricordami di ordinare dei fiori una settimana prima del compleanno di mamma. Hoffman era molto orgoglioso del fatto che l’intelligenza artificiale sapesse comprendere che la dicitura “mom’s house” era da interpretare come: “l’abitazione della madre di Scott Hoffman” e che Google non l’avesse confusa con le decine di ristoranti e negozi che in America si chiamano Mom’s house. Ma non trovava per niente preoccupante che Google potesse sapere identità, indirizzo e compleanno delle nostre madri, in aggiunta a chissà quanti altri dati estratti magari dalla nuova telecamera con riconoscimento facciale. Non esattamente quello che ti aspetteresti da un paladino della privacy. Google sostiene che gli utenti possono cancellare questi dati quando vogliono, e Rishi Chandra, un altro vicepresidente, ha detto al Financial Times: “Non utilizzeremo mai questi dati per la personalizzazione degli annunci pubblicitari”. Ma quando il Ft ha chiesto conferma della dichiarazione all’ufficio stampa di Google, si è sentito rispondere: “Mai dire mai”. La rinnovata passione per la privacy dei capitalisti di sorveglianza è tutta qui.