Perché la moneta virtuale di Facebook è una miccia per il sistema bancario
Sarà annunciata la settimana prossima, partecipano Visa, Mastercard e Uber. La rivoluzione e la spinta disruptive
Milano. Nel settore se ne parla da anni: quand’è che la Silicon Valley farà la sua mossa nel mondo finanziario? Dopo aver cambiato i rapporti interpersonali, il modo in cui facciamo acquisti, le abitudini alimentari, i trasporti, l’informazione Big Tech è pronto a buttarsi sui soldi. Era prevedibile: il settore bancario, con i suoi servizi ad alta digitalizzazione, è un eccellente candidato per una disruption violenta. La settimana prossima, secondo le indiscrezioni, Facebook presenterà al mondo il “progetto Libra”, la sua criptomoneta virtuale, ma prima ancora della presentazione il social network ha lasciato una scia di indizi. La nuova moneta di Facebook, che si chiamerà Libra o GlobalCoin, sarà gestita da un consorzio di cui fanno parte alcuni giganti dei settori finanziario e tech, che hanno versato circa 10 milioni di dollari ciascuno per partecipare. Tra questi, ha scritto ieri il Wall Street Journal, ci sono Visa, Mastercard, Uber, Stripe, PayPal, Booking.com e, secondo i giornali francesi, anche Iliad. Libra sarà una criptovaluta, come bitcoin, ma non subirà fluttuazioni paurose: l’intenzione di Facebook è quella di creare uno “stablecoin”, una moneta virtuale agganciata a una serie di valute stabili come euro e dollaro. Libra servirà per fare pagamenti all’interno di Facebook e per scambiarsi soldi tra utenti, ma non solo: potrebbe essere usata per fare acquisti sui siti di ecommerce e nei negozi fisici abilitati, e secondo The Information potrebbero perfino esserci distributori fisici stile bancomat in cui si inserisce contante per caricare moneta virtuale sul proprio account Facebook.
Per il social network questa mossa fa parte di un piano in atto da tempo che riguarda l’adozione di un nuovo modello: Facebook vuole diventare simile a WeChat, la app cinese dove si chatta, si telefona, si prenota il taxi e soprattutto si fanno acquisti sia su internet sia nel mondo reale. “La mole dei dati e delle informazioni personali a cui Facebook potrebbe avere accesso crescerà enormemente, e se già ci sono state polemiche sull’influenza delle piattaforme sulla società, queste potrebbero aumentare”, dice Raffaele Mauro, managing director di Endeavor Italia.
Se le cose stanno così, è facile capire dove si rischia di finire: un mondo in cui una parte dei servizi finanziari basilari che ora sono offerti dalle banche sarà offerta da Facebook (e poi da tutti gli altri giganti tech che seguiranno). Ma i dubbi sono enormi. Il primo riguarda la sicurezza, ovviamente. Poi c’è la tenuta di un apparato così complesso. “Sembra che il sistema sia pensato per realizzare tante piccole transazioni, ma la blockchain ha da sempre un problema di scalabilità”, dice Christian Miccoli, ex amministratore delegato di Ing Direct e CheBanca!, ora cofondatore e ceo di una startup di criptovalute che si chiama Conio. “A oggi non esiste ancora uno standard blockchain che sia in grado di fornire il livello di performance e di stabilità che servirebbe per dare questo tipo di servizio, bisogna vedere quale soluzione avrà trovato Facebook”.
Il potenziale di disruption per il sistema bancario tradizionale rimane tuttavia pericoloso. “Dopo l’ondata che ha colpito i contenuti online vent’anni fa e quella che ha colpito l’infrastruttura fisica dieci anni fa con Uber e Airbnb, adesso potrebbe essere il turno del settore finanziario”, dice Raffaele Mauro. La disintermediazione è già in atto, Facebook o non Facebook, ma questo non significa certo che il sistema della banche sia spacciato: bisogna contare, infatti, il fattore fiducia. “Le banche sono al primo posto nelle nostre indagini quando si parla di entità sicure a cui affidare il proprio denaro”, dice Ivano Asaro, direttore dell’Osservatorio Mobile Payment del Politecnico di Milano. “E i social network sono ultimi. Le fasce più giovani della popolazione sperimentano con forme innovative di pagamento, ma quando siamo andati a chiedere loro: ‘Affideresti i tuoi soldi ai social?’, quasi nessuno ci ha risposto con sicurezza che lo farebbe”.