Tra censura di Google e troll su Facebook, la grande questione è lo scudo legale
Una legge del 1996 ha deciso il futuro di internet
Milano. In un op-ed sul Wall Street Journal Dennis Prager, un conduttore radiofonico conservatore americano, ha scritto che Google, e più precisamente YouTube, lo censura per le sue idee di destra. Prager sostiene che il canale di YouTube della sua associazione noprofit che tratta temi conservatori è stato inserito dalla piattaforma nell’elenco dei video con restrizioni e penalizzato. I video con restrizioni sono video che, a giudizio insindacabile di YouTube, trattano argomenti violenti o temi politici molto divisivi, e non possono essere visti quando gli utenti attivano certi filtri, per esempio quello per la navigazione con i bambini. Prager sostiene che Google, per tramite di YouTube, censura volontariamente i suoi contenuti, tra cui un video sui Dieci comandamenti. E’ un argomento noto, molto sentito negli Stati Uniti: i conservatori sono convinti che le piattaforme di internet abbiano un “liberal bias”, e penalizzino i contenuti di destra; i liberal ritengono invece che le piattaforme troppo spesso siano megafono dell’estremismo di destra.
La parte più interessante dell’op-ed, tuttavia, arriva quando Prager cita (in maniera non positiva) la sezione 230 del Communications Decency Act, una legge approvata dal Congresso americano nel 1996. La sezione 230 è uno scudo legale che i legislatori americani hanno fornito alle piattaforme online per proteggerle dalle conseguenze dei comportamenti illegali dei loro utenti. Il ragionamento è: se un utente scrive su Facebook qualcosa passibile di reato (una minaccia, incitamento all’odio e così via), la responsabilità è esclusivamente dell’utente, non di Facebook. La piattaforma compie scelte editoriali perché fa attività di moderazione di alcuni contenuti, ma non è ha nessuna responsabilità di tipo editoriale, non è responsabile cioè di quello che scrivono i suoi utenti. E’ il contrario di quello che avviene, per esempio, nei quotidiani.
E’ curioso perché nello stesso giorno dell’op-ed sul Wall Street Journal un giornale americano dalla parte opposta dello spettro politico, il New York Times, ha dedicato alla sezione 230 del Communications Decency Act un lungo approfondimento in cui si dice che, per la prima volta in più di vent’anni, la politica di Washington sta pensando seriamente di cambiare lo scudo legale di cui gode la Silicon Valley. Il New York Times racconta come il mese scorso Ted Cruz, senatore repubblicano del Texas che spesso ha denunciato il presunto “liberal bias” delle piattaforme di internet, durante un’udienza ha minacciato di cambiare la sezione 230. Questa minaccia trova eco in molti legislatori democratici, che per eterogenesi dei fini si trovano in un peculiare accordo bipartisan con gli avversari politici. E’ un tema enorme che riguarda tutto il mondo: anche l’Europa, nel 2000, adottò norme simili a quelle americane e dunque è parte in causa del dibattito.
Scudi legali come la sezione 230 hanno consentito alle grandi piattaforme di internet di diventare quello che sono. Facebook può permettersi di avere 2 miliardi e mezzo di utenti che scrivono quello che vogliono sul social network perché non teme ripercussioni legali sui contenuti. Lo stesso vale per Twitter e per tutti gli altri. Senza questo scudo l’economia di internet non sarebbe quella che è oggi, e i difensori della sezione 230 dicono che è stata il volano di una delle stagioni più innovative della storia americana e non solo. I critici dello scudo legale sostengono tuttavia che la quasi totale irresponsabilità concessa alle piattaforme sia una delle ragioni principali per cui si sono sviluppate in questo modo: giganti incontrollati e incontrollabili che non sono in grado di tenere a bada gli istinti violenti degli iscritti, le manipolazioni politiche di ogni segno e le interferenze straniere. Forse, obiettano i critici, se fin dall’inizio fosse stata iniettata loro un po’ di responsabilità le piattaforme si sarebbero sviluppate lo stesso, ma adesso non ci staremmo accapigliando su “liberal bias” e troll russi.