Che fare con tutti questi nostri dati? Dilemmi contro feticismi e paure
Un libro di Antonio Nicita e Marco Delmastro
Alla nozione di big data tocca un destino comune alla maggior parte delle parole d’ordine dell’innovazione: feticizzata dall’avanguardia entusiasta e brandita come uno spauracchio da tecnofobi e neoluddisti, rimane largamente impenetrabile al grande pubblico. Antonio Nicita, ordinario di politica economica a La Sapienza e commissario Agcom uscente, e Marco Delmastro, che presso la stessa Autorità dirige il Servizio economico-statistico, si sono meritoriamente incaricati di fare luce sul tema, con una breve ma densa monografia dal titolo “Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo” (Il Mulino).
Per una volta, del resto, le difficoltà definitorie sono connaturate alla sostanza elusiva del fenomeno. Nella formula “big data”, l’aggettivo allude naturalmente al volume – cioè alla massa sterminata d’informazioni che utenti, macchine, sensori disseminano online – ma anche alla velocità con cui esse vengono generate, trattate e immagazzinate, e alla varietà caleidoscopica di fonti e formati – strutturati o meno – da cui e in cui sgorgano. Le piattaforme guadano questo flusso apparentemente ingovernabile con i loro enormi setacci: cioè con gli algoritmi che, dalle tre ‘v’ dei big data, ne estraggono una quarta, il valore – tipicamente attraverso lo sfruttamento delle informazioni a scopo pubblicitario.
Il meccanismo si rinforza da sé: i dati ne sono sia input, sia output; gli algoritmi che li digeriscono ne generano a propria volta di nuovi, affinando nel processo le proprie capacità predittive; e la profilazione dei singoli utenti permette di mettere ordine nel caos attraverso la definizione di categorie sempre più dettagliate, in cui gli utenti sono a propria volta incasellati. E’ su questo terreno che si dipana la sfida per operatori e regolatori, all’incrocio di tre esigenze di tutela contrapposte: concorrenza, riservatezza, integrità del confronto democratico.
Ma Delmastro e Nicita non si limitano all’esposizione didattica: il cuore del libro sta nella proposta di uscire dalla logica della delega, che vede nel dato un bene inalienabile di cui il titolare autorizza un utilizzo limitato al fine dell’erogazione di un servizio, e abbracciare invece una logica proprietaria, che espliciti l’esistenza di una “transazione tra chi genera il dato e chi lo acquisisce pagando un prezzo (oppure offrendo un servizio o corrispondendo un’utilità)”, così da propiziare la costruzione di un vero e proprio mercato dei dati.
Questa costruzione, però, si rivela meno lineare del previsto. In primo luogo, perché muove dal presupposto che “le informazioni che ci riguardano […] hanno le caratteristiche di un bene pubblico ma […] vengono poi fatte proprie in via esclusiva da soggetti terzi”: si tratta, a ben vedere, di un giudizio contraddittorio: se un bene pubblico si qualifica in quanto non rivale (il consumo da parte di x non limita il consumo da parte di y) e non escludibile (è impossibile circoscriverne il consumo ai soli soggetti paganti), i dati esibiscono il primo tratto, ma non – per ammissione degli stessi autori – il secondo.
Inoltre, Delmastro e Nicita assumono che a generare il dato sia l’utente, a cui dunque sarebbe più equo attribuirne la proprietà. Anche quest’affermazione appare contestabile: da un lato, perché sussiste uno iato tra la condotta di un soggetto (il fatto che al ristorante ordini sempre il vitello tonnato) e il dato che quella condotta rivela (la mia preferenza per il vitello tonnato), iato che la dimensione digitale confonde ma non oblitera; dall’altro, perché la peculiarità dei big data consiste proprio nell’abilità di sintetizzare informazioni che il soggetto non ha comunque mai rilasciato (per esempio, ricavandone l’orientamento politico dall’osservazione dei suoi consumi culturali).
In questo senso, i dati non sono affatto “il petrolio del ventunesimo secolo”: non solo – come riconoscono gli autori – perché non parliamo di una materia prima scarsa e omogenea, dal prezzo chiaramente osservabile; ma più radicalmente perché dobbiamo concepirli come una risorsa in larga parte da creare. Il vantaggio competitivo delle piattaforme, dunque, non sta tanto e solo nella disponibilità di dati – in principio replicabile, spesso esorbitante e segnata da rendimenti decrescenti: la trentaseiesima visualizzazione delle prodezze di Van Basten poco aggiunge a quel che Youtube già conosce di me – quanto piuttosto nell’efficacia dell’algoritmo.
Nelle intenzioni di Delmastro e Nicita, la privatizzazione dei dati (che sono, però, già privati) dovrebbe agevolarne la circolazione: sul mercato o, se del caso, per via regolamentare, con gli strumenti della portabilità e dell’interoperabilità. Ma anche sotto il profilo dell’efficacia, le conseguenze sono meno che ovvie. Gli utenti, anche postulando una sensibilità al tema fin qui indimostrata e un’insospettabile capacità di coordinamento, finirebbero per fare i conti con ostacoli più robusti, come le economie di rete; le autorità, pur sorvolando sulle difficoltà pratiche e sui costi che il loro intervento imporrebbe, rischierebbero di esasperare la citata tensione tra privacy e concorrenza.
Delmastro e Nicita offrono un contributo stimolante e rigoroso, che arricchisce un dibattito ancora giovane e giocoforza immaturo. L’innovazione si accompagna sovente alla tentazione di rottamare le categorie esistenti, invece di aggiornarle – un rischio che il libro elude abilmente. Ben venga l’analisi delle sfide che i big data pongono, dunque, purché non si perda di vista il contesto in cui si situano. In un momento in cui la diffidenza per le grandi imprese tecnologiche impazza e dilagano parole d’ordine curiose come “capitalismo della sorveglianza”, non è superfluo ricordare che i big data sono un mezzo, mentre ciò che dovrebbe occuparci sono i fini. Sono big data quelli che le piattaforme utilizzano per proporci inserzioni accattivanti e quelli che i governi usano per schedare i propri cittadini: se smerciare Roomba e Nespresso e reprimere il dissenso politico siano obiettivi assimilabili, è una conclusione che rimetto di buon grado al lettore.