L'esperto Onu per la libertà d'espressione ha idee su Facebook e sui trojan
"C’è molto da cambiare e al centro di questa battaglia ci sono gli utenti". Parla David Kaye
Roma. David Kaye, professore di Diritto alla UC Irvine School of Law e special rapporteur delle Nazioni Unite per la promozione e la tutela della libertà di opinione e di espressione, è una delle voci più autorevoli e appassionate quando si parla di regole e web. Nei suoi interventi e nel suo ultimo libro (“Speech Police: The Global Struggle to Govern the Internet”), che ha avuto un discreto successo nel mondo anglosassone ed è stato indicato come uno degli esempi più interessanti di analisi su un tema scivolosissimo, si scaglia contro l’industria tecnologica pretendendo il rispetto dei diritti umani, ma non si risparmia nemmeno contro gli stati, che quando si parla di restrizione della libertà d’espressione online sono ancora gli attori più pericolosi, come ha ricordato anche l’Economist nel suo ultimo numero.
Parlare di regole e web è un tema complesso, quasi una blasfemia per alcuni, che chiedono un cyberspazio governato esclusivamente dagli internauti in nome di quell’utopia digitale che ha trovato la massima espressione in un manifesto scritto da John Perry Barlow, leggendario paroliere dei Grateful Dead nonché co-fondatore della Electronic Frontier Foundation, la più vecchia organizzazione noprofit nata per difendere le libertà civili nell’èra della Rete. “Governi del mondo industriale, in nome del futuro chiedo a voi del passato di lasciarci soli. Non siete i benvenuti tra noi. Non avete sovranità dove ci riuniamo”, declamava Barlow, rivendicando l’indipendenza dalle leggi terrene di tutto ciò che è online. L’opuscolo è datato 8 febbraio 1996, da allora sono trascorsi ventitré anni. Molte cose sono cambiate e l’utopia si è infranta sulla realtà.
“Oggi sono in corso due processi contrapposti – spiega Kaye al Foglio – Da una parte, poche compagnie private hanno un enorme potere sul dibattito pubblico: decidono quel che vediamo su internet ed esistono pochi strumenti che permettono di controllare il modo in cui regolano la libertà di espressione. Dall’altra, gli stati hanno appena cominciato a contrastare questo potere, imponendo leggi che spesso, a loro volta, minano il diritto alla libertà di parola”. Un cortocircuito di non facile risoluzione che Kaye affronta nel suo ultimo libro con idee per modificare la situazione e trovare un equilibrio tra la necessità di regolare la rete e la salvaguardia dei diritti essenziali. “C’è molto da cambiare”, spiega, ma non bisogna dimenticare che al centro di questa battaglia ci sono gli utenti. A questo proposito, nel sua saggio, Kaye racconta una storia significativa. Era in vacanza in Cambogia, quando un autista gli ha confessato di desiderare un cambio di governo, al pari di tutti i suoi conoscenti, per via del crescente autoritarismo. Nel momento in cui Kaye ha chiesto come era riuscito a ottenere quelle informazioni, considerando che i media sono spesso censurati, la sua risposta è stata istantanea: “Facebook!”. Da qui una considerazione non scontata: lo stesso social che fa da megafono alle notizie false non ha perso le potenzialità degli inizi e la capacità di arrivare dove a volte i media non riescono.
La proposta fondamentale di Kaye è: impostare l’economia di internet partendo dal rispetto dei diritti umani. “I colossi del mondo della tecnologia li dovrebbero porre alla base della moderazione dei contenuti e renderli espliciti nei loro termini di servizio”, dice. Ci deve essere ovviamente un controllo da parte della società civile, possibilmente attraverso l’istituzione di organismi ad hoc. Anche i governi devono esercitare controllo, evitando però gli eccessi: non dovrebbero occuparsi di leggi dirette a regolare quanto condiviso sui social, ma esigere dai giganti della Silicon Valley “piena trasparenza e chiarezza” sia per le policy adottate sia per le motivazioni dietro alle decisioni prese in merito a determinati contenuti.
Princìpi da applicare anche a un’altra questione cara a Kaye, che di recente ha chiesto una moratoria internazionale sulla vendita degli strumenti sfruttati per la sorveglianza digitale il cui mercato è ancora “privo di regole o quasi”. Sono i famosi trojan resi celebri in Italia dalle cronache recenti. Per Kaye dovrebbero essere banditi o regolamentati in maniera ferrea, il pericolo per la libertà è troppo grande: “Il Parlamento italiano deve assicurarsi di avere gli strumenti necessari per supervisionare sul loro impiego e far sì che le forze dell’ordine li utilizzino solo se autorizzati e in circostanze ben precise”.