La tecnologia trova modi per dare nuova vita alla plastica, oltre il #plasticfree
Gli investimenti sulla pirolisi avanzano senza demagogia
Roma. Mentre in Italia con piglio demagogico, grazie ai servigi del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, si offrono incentivi ai negozianti che vendono liquidi sfusi per limitare l’uso dei contenitori di plastica, come previsto dal “decreto clima”, altrove avanza in silenzio la tecnologia per riciclarla in modo perpetuo. Il colosso chimico tedesco Basf ha annunciato mercoledì di avere investito 20 milioni nella norvegese Quantafuel, uno specialista per la pirolisi di rifiuti di plastica misti e la purificazione dell’olio di pirolisi, aprendo una prospettiva di diffusione su scala industriale del riciclo chimico delle plastiche che non prevede combustione e quindi inquinamento atmosferico.
La pirolisi è un processo termochimico di dissociazione molecolare noto dal secolo scorso per cui è possibile scindere i legami chimici di materie solide come la plastica ad alte temperature (superiori a 500 gradi) per trasformare le sostanze presenti nei rifiuti in solidi, liquidi o gas. Il prodotto liquido della pirolizzazione è l’olio di pirolisi che può essere usato o come combustibile oppure come materia prima per gli impianti petrolchimici in modo da creare nuova plastica dal riciclo della plastica originale per prolungarne così il ciclo di vita potenzialmente all’infinito. Il motivo per cui l’olio di pirolisi da plastiche non è ancora diffuso su larga scala è che finora non si era arrivati a un livello di purezza tale da essere comparabile alla nafta.
Ora è possibile utilizzare un mix di olio di pirolisi e nafta per la produzione di materie plastiche in quanto non c’è differenza nel trattamento della materia prima negli impianti. Le soluzioni più utilizzate in questi anni per ridurre l’uso della plastica o mitigare la produzione di rifiuti si sono concentrate sul riciclo meccanico delle plastiche e sulla creazione di materiali degradabili. Tuttavia le materie plastiche monouso rappresentano ancora la metà del consumo di plastica mondiale e possono finire solo in discarica, negli inceneritori o nell’ambiente. Il problema dei rifiuti plastici dispersi negli oceani non attiene all’esistenza della plastica in sé, senza la quale lo sviluppo industriale del Novecento non sarebbe esistito (e senza le flebo o altri dispositivi medici e chirurgici fatti di plastica molti esseri umani non sarebbero ancora in vita) ma alla diseducazione della popolazione.
La pirolisi è un sistema di riciclo che consente di riutilizzare i rifiuti di plastica in modo più efficace del riciclo meccanico: usa una varietà di tipi di plastica che i centri di riciclaggio meccanico in genere rifiutano, e inoltre il riciclo meccanico dà vita nuova a certi tipi di plastiche una sola volta per diventare, ad esempio, fibre per l’industria tessile. La pirolisi ricrea plastica vergine utilizzando il calore in assenza di ossigeno, l’unica anidride carbonica che emette proviene dalla fonte di energia che genera il calore, come avviene per la produzione elettrica.
Secondo uno studio di Boston Consulting, a seconda del mix di input, l’output della pirolisi è dal 70-80 per cento di nafta e dal 10-15 di gas, che di solito viene riciclato per fornire il calore della pirolisi nei processi successivi. Il restante 10-15 per cento della produzione è un solido inerte che può essere riciclato per pavimentare le strade o inviato in discarica, oppure come combustibile. Per via del costo dell’energia necessario a produrlo il costo dell’olio di pirolisi è maggiore rispetto alla nafta vergine. La tedesca Basf è la più avanzata nella sperimentazione su scala mondiale e si unisce a diversi partner che producono olio di pirolisi (oltre alla norvegese Quantafuel collabora la tedesca Remondis) dai quali poi si rifornisce per produrre materie plastiche (sta lanciando i primi prodotti come il cruscotto del suv elettrico di Jaguar Land Rover e gli imballaggi della tedesca Storopack). Ma se la tecnologia è avanzata il problema per il suo sviluppo è solo burocratico. I regolatori nazionali in Europa ancora non danno alla plastica prodotta in parte con olio di pirolisi la patente di prodotto riciclato perché il riciclo chimico non è considerato “riciclo” a differenza di quello meccanico, lasciando sullo sfondo del dibattito sull’inquinamento dei mari una soluzione innovativa.