Il Foglio Innovazione
Il 2020 sembra molto il 2016 – e non abbiamo imparato niente
Ads, bot, troll, social da regolamentare ma chi lo fa, loro o i politici? Piccolo viaggio nella politica americana tra bolle, rabbia e buone intenzioni di quest’epoca del tempo perso
Tulsi Gabbard è una deputata democratica americana delle Hawaii candidata alle primarie per la corsa alla Casa Bianca. Se non l’avete mai sentita nominare, avete ragione voi: ha l’1,2 per cento dei consensi, a volte arriva al due, il tre è un obiettivo sfiorato una volta. La corsa della sinistra americana contro Trump è frammentata e tormentata certo, ma l’unovirgola per cento è poco persino per gli specialisti, per gli addetti ai lavori, per i parenti stretti. Eppure secondo i dati di Storyful, una compagnia che fa intelligence sui social (sì, è un lavoro: c’è anche un’unità speciale dell’Intelligence americana che si occupa di questo, è stata creata ad agosto, soltanto ad agosto), ha mostrato che nella settimana tra l’8 e il 15 ottobre, la Gabbard ha avuto 339 mila menzioni sui social, il 108 per cento in più rispetto alla media della settimana precedente, ed è di gran lunga la più menzionata tra tutti i candidati alle primarie democratiche. Nei sondaggi è sempre tra l’uno e il due per cento, ma sui social la Gabbard è una star. Direte voi: la solita bolla. Certo, ma a ignorarle, certe bolle, poi ti accorgi che avevi sbagliato. Ed è tardi.
Nella settimana in cui la Gabbard è stata molto citata, si è tenuto il dibattito dei candidati democratici in Ohio, una vetrina inusuale per la deputata hawaiana che fino a qualche giorno prima dell’incontro voleva addirittura non partecipare: il Partito democratico e i media liberal, ha detto, stanno “truccando” i dibattiti e l’accesso alle primarie. Poi ha cambiato idea, senza dare molte spiegazioni: ci sarò, guardatemi. Il seguito della Gabbard è legato ai sostenitori trumpiani: Steve Bannon la considera una politica di grande talento; Richard Spencer, un suprematista, dice che potrebbe votare per lei; Ron Paul elogia il suo “istinto libertario”; Mike Cernovich, uno dei più noti propalatori di teorie del complotto della destra estrema, sottolinea la sua “good vibe”, e aggiunge: “Sembra molto trumpiana”, complimento massimo. Veterana della guerra in Iraq, Gabbard propone un fiero isolazionismo, è contro l’America-poliziotto-del-mondo, è filo Putin e filo Assad, vuole mettere fine alle guerre senza fine, slogan trumpianissimo – soprattutto vuole mettere fine a una guerra che non c’è, quella “per cambiare regime in Siria” (li vedete tutti i selfie che il rais Bashar el Assad posta giulivo, sì?) – e per questo va molto forte anche su 4chan, dove viene chiamata “Mommy” e celebrata per le sue posizioni contro Israele. Se si allarga lo sguardo, come ha fatto Ryan Broderick di BuzzFeedNews (lo fa da molto tempo, con una pazienza e una cura invidiabili), si scopre che in questa bolla ci sono anche i media russi che hanno raccontato la candidatura della Gabbard con l’enfasi dello sbarco sulla luna, gli account delle ambasciate russe (in particolare quella del Sud Africa) e un po’ di troll. “Durante le elezioni del 2016 – ha scritto Broderick – eserciti internazionali di troll, misogini, neofascisti e suprematisti impararono a fare tutti la stessa cosa – infiltrare i social media poco controllati per seminare propaganda. Questo miasma tossico attinge alla stessa strategia per disrupt le elezioni del 2020: scegli un candidato democratico, infiltra la sua base online di sostenitori, radicalizza i suoi fan, usa i social media per ricontestualizzare la campagna, e spera che i media o altri candidati mangino la foglia”.
Con la Gabbard, nella trappola c’è finita nientemeno che Hillary Clinton, per la quale l’interferenza straniera nelle elezioni americane è una questione personale e irrisolta (irrisolvibile pure): la Clinton ha detto che secondo lei i troll, i fan trumpiani e i russi hanno già un loro candidato preferito, che è a tutti gli effetti “un asset russo”. Non ha fatto il nome, ma tutti hanno capito. La Gabbard ha risposto, è iniziata una tweetstorm che è arrivata sui media tradizionali, i talk show hanno parlato della Gabbard, gli altri candidati democratici hanno detto la loro sulla Gabbard (difendendola per lo più, tanto elettoralmente parlando è innocua), le menzioni sono quadruplicate, e l’esito è stato: la Clinton attacca la Gabbard perché in realtà sta pensando di candidarsi lei.
La scelta di Twitter di abolire le ads politiche potrebbe essere una svolta in un processo di responsabilizzazione inevitabile
E’ un attimo che una sconosciuta politica democratica che Trump avrebbe voluto mettere nella propria Amministrazione (si erano anche incontrati) diventi martire della libertà di espressione, bersaglio dei clintoniani guerrafondai ancora a caccia di una vendetta per la sconfitta del 2016, e che la nostra attenzione si sposti su Hillary, sul fatto che con questa sua ossessione per le ingerenze straniere nel processo democratico americano abbia regalato agli estremisti di destra, i suprematisti, i russi, gli assadisti e a tutto questo seguito invero poco filoamericano che coltiva la Gabbard, un’occasione perfetta. E’ un attimo che la storia da commentare non sia più se in effetti si sta ripetendo l’intossicazione del 2016 ma la solita tigna di Hillary, che proprio non riesce a digerire il fatto che gli americani abbiano preferito a lei persino uno come Trump. E’ un attimo che si ripete di continuo, e noi facciamo finta di ignorarlo, quest’attimo e tutti gli altri, così come ridiamo divertiti quando Vladimir Putin dice sarcastico ai giornalisti: “Vi dirò un segreto, proveremo certamente” a interferire nelle elezioni del 2020, “ma non ditelo a nessuno”. Che simpaticone, questo Putin: conta sui nostri ghigni, sulle nostre distrazioni, sul fatto che il Russiagate, un’inchiesta di due anni e di 500 pagine, è finita schiantata da un tweet con le maiuscole di Trump – “NO COLLUSION!” – e nessuno si è preso più la briga di andare a vedere e analizzare la macchina dell’interferenza russa. Non tanto per cacciare Trump (quello possono farlo solo i senatori repubblicani, se solo volessero), ma per stare attenti e vigili, per evitare di ripetere gli errori del 2016, perché l’anno prossimo e nelle elezioni anche in altre parti del mondo, il nostro stupore non sarà più un alibi.
Facebook ha detto in un comunicato ufficiale che la Internet Research Agency (Ira), la fabbrica-dei-troll-del-cuoco-di-Putin che secondo le autorità americane ha interferito nella campagna elettorale del 2016, sta costruendo un network di account su Instagram (che è di proprietà di Facebook) negli stati americani in bilico, gli “swing states”. Secondo Graphika, un’altra società di intelligence sui social media arruolata da Facebook per analizzare questi account, il network aveva come obiettivo la candidatura alle presidenziali di Joe Biden, l’ex vicepresidente democratico che potrebbe sfidare Trump nel 2020. Cinquanta account su Instagram e uno su Facebook hanno pubblicato 75 mila post ai loro 250 mila follower su molte questioni della politica e della società americana. Alcuni erano pro Trump altri no, alcuni sembravano attivisti neri, altri a favore dei diritti delle donne o degli omosessuali, altri ambientalisti. La tattica è sempre la stessa, come ha sintetizzato il direttore di Graphika, Ben Nimmo, parlando alla Cnn: “Non si tratta di russi che si rivolgono agli americani con contenuti russi. Sono russi che si rivolgono agli americani con contenuti americani”. Buona parte di questi contenuti era ripresa da media americani, e il riciclo di temi già visti è utile per sembrare americani – anche se poi gli errori nella formulazione dei post rivelavano che di certo non si trattava di utenti madrelingua. Annunciando le nuove attività dell’Ira, Facebook ha anche detto di aver smantellato una piccola rete di account la cui origine è in Iran. Oggi, ha detto Graphika, è più difficile far finta di essere un repubblicano del Tennessee e avere un numero di telefono russo rispetto a quanto accadeva nel 2016, e questa unica nota positiva è stata la premessa di Facebook per dire che è in atto un controllo molto più capillare e severo rispetto al passato, e che questa volta non sarà possibile insidiare il processo elettorale americano – la chiamiamo democrazia – come è avvenuto nel 2016.
Facebook non vuole impedire ai politici di usare le pubblicità né verificare se i messaggi pubblicitari contengono falsità. Twitter, al contrario, ha deciso di abolirle del tutto, le pubblicità politiche, perché il consenso bisogna guadagnarselo, non comprarselo. La decisione di Twitter è potenzialmente una svolta: se questo è l’inizio della rivoluzione, se anche Facebook sarà costretto dalle pressioni – tantissime, di ogni genere – a rivedere la gestione delle ads, che valgono il 5 per cento dei suoi ricavi, non poco, allora Jack Dorsey, creatore di Twitter, diventerà il pioniere di un processo di responsabilizzazione inevitabile, ancorché in ritardo – e che nulla fa, per il momento, contro il cosiddetto branco dei lupi da tastiera, con bot e troll ad amplificare il messaggio. In questo senso, l’inchiesta stupenda del New York Times sui tweet di Trump, dal primo all’ultimo, è esemplificativa: il presidente ha rituittato almeno 145 account non verificati che ripetono slogan estremisti e teorie del complotto – di questi circa venti sono stati in seguito sospesi da Twitter. Ma da QAnon alle teorie sul “deep state” la nuvola twittarola di Trump è grande, e decisamente molto attiva.
Quando Facebook ha detto di aver eliminato account che sembravano i troll del cuoco di Putin, la domanda è stata: ma come, ma esistono ancora?
Quel che colpisce, di questo dibattito, è il tempo verbale utilizzato da tutti gli interlocutori. Stiamo facendo, stiamo appurando, stiamo introducendo. Le primarie democratiche iniziano a gennaio, c’è un processo di impeachment in corso in cui sta venendo triturata tutta la classe politico-diplomatica degli Stati Uniti e anche la nostra capacità di distinguere i fatti dalla propaganda, ci sono anche altre elezioni in altri paesi democratici – come quelle britanniche, non dimentichiamo che pure sulla Brexit le ingerenze non erano state poche – e la classe dirigente, dalla Silicon Valley ai palazzi della politica, sta valutando il da farsi. Eppure il 2016 non è ieri, che il re fosse nudo è stato detto più e più volte, lo scandalo di Cambridge Analytica ci è piombato addosso con una forza tale che non potevamo, non possiamo, più dire che non avevamo capito. Eppure. Quando Facebook ha parlato della Internet Research Agency, la domanda più naturale non poteva che essere: esiste ancora? La fabbrica di troll è operativa? Yevgeny Prigozhin, il celebre cuoco di Putin (uno che negli anni Ottanta è stato nove anni in prigione per frode e furto, che è uscito e ha iniziato un’attività di catering che poi è diventata una catena di ristoranti di lusso a San Pietroburgo in cui il presidente russo ama andare a festeggiare il compleanno) è stato messo sotto sanzioni dal dipartimento del Tesoro americano per “ingerenza nelle elezioni del 2018”, quelle di metà mandato: cioè nel 2018 è accaduto quel che era accaduto due anni prima, siamo noi che eravamo distratti. Oggi la Internet Research Agency non si chiama più così, ma è stata trasformata nella Federalnoe agenstvo novostej (Fna), la sede non è cambiata e sapete cosa fa? Siti di news, 200 giornalisti che fanno informazione, o disinformazione, difficile che ci occuperemo della differenza: siamo soltanto malati di russofobia, giusto?
Il famigerato rapporto sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller è politicamente morto, però esiste. Anzi: visto che non è un’arma politica funzionante si potrebbe prenderlo per quello che è, cioè il racconto di una macchina digitale con l’obiettivo di distorcere il processo informativo che forma l’opinione degli elettori. Sarebbe utile: un manuale operativo del nemico – l’Ira, per dire, ha raggiunto nel 2016 126 milioni di persone su Facebook, ma era attiva su tutti i social – non capita tutti i giorni. E in questo rapporto si descrive l’attività dell’Ira dal 2014, con l’obiettivo di destabilizzare l’America al suo interno amplificando le fratture esistenti, e spostando il seguito online in proteste “fisiche”, nel mondo reale. Parte del lavoro è stato fatto con le ads, che molti deputati e senatori americani non sapevano cosa fossero, nel 2017, e forse nemmeno oggi. Ryan Lizza, giornalista brevemente caduto in disgrazia per il #metoo, ha raccontato su Politico le paure dei democratici per le ingerenze straniere e per la disinformazione dei trumpiani. Lizza ha visionato le email del Democratic National Commitee, con tutte le allerte, le richieste di intervento fatte ai social, la frustrazione di non essere ascoltati come si vorrebbe. In conclusione Lizza scrive: “Nelle politiche dei democratici sta emergendo un consenso sul fatto che queste piattaforme (Google, Facebook&Co) sono la minaccia principale per il candidato che infine sarà scelto” per sfidare Trump. “Sta emergendo”, adesso.
Circola molto un articolo bellissimo scritto dalla giornalista Katherine Miller su quanto è cambiato il senso del tempo negli ultimi dieci anni. I social, la tv, Netflix, persino il trumpismo hanno scardinato la percezione del tempo, “il tempo algoritmico” finisce per capovolgere il tempo fisico: “Quello che devi per forza dire, quello che stai aspettando è sempre lì, ti spinge su e giù e poi di nuovo su ancora, ancora, ancora. Chi è che si può più ricordare qualcosa?”. Sembra la sintesi di quel che è avvenuto tra il 2016 e oggi, un grande slancio emotivo verso il “mai più” e poi nemmeno un pomeriggio per studiare da vicino cosa è accaduto, cosa si può fare per evitare che certe distorsioni si ripresentino uguali. Boris Johnson, premier inglese che cerca di essere confermato al voto del 12 dicembre, ha tra le mani un rapporto sulle ingerenze russe nel referendum del 2016 ma ancora non lo pubblica, pure se i parlamentari che ci hanno lavorato hanno indagato e mostrato molte incongruenze tra le testimonianze del Vote Leave e la ricostruzione dei fatti. Siamo ancora fermi, sospesi. Poi ci sono quei canti per niente virtuali che si sentono contro Trump e, ancora domenica, a un comizio del democratico Bernie Sanders. “Lock him up”, gridano i sostenitori di Sanders, riprendendo lo slogan tremendo del trumpismo rivolto a Hillary, “lock her up”. Eccolo, il tempo ingoiato di fretta: sa tanto di tempo perso.