Gli anti innovazione
L’Italia è indietro sul digitale, ma la compagine M5s al governo ha una ricetta statalista. Il caso Pisano
Milano. A sfogliare il rapporto sullo stato della tecnologia europea nel 2019 pubblicato ieri dal fondo di venture capital Atomico, si fa fatica a trovare l’Italia. Il rapporto è una delle fonti più celebri di metriche e informazioni utili per misurare come vanno l’innovazione e la tecnologia in Europa: e l’Italia, seconda potenza manifatturiera dell’Ue e terza economia continentale, è quasi invisibile, relegata nelle note a margine, nella parte bassa delle tabelle, in fondo alle classifiche. Qualche esempio. Nel 2019 sono diventati ben 20 i paesi europei in cui almeno un’azienda tecnologica ha raggiunto la valutazione di mercato di 1 miliardo di dollari. L’Italia non fa parte di questi paesi. Quando si parla di investimenti privati nelle aziende tecnologiche, l’Italia è appena il decimo paese in Europa, con 537 milioni di dollari investiti. Non facciamo il paragone impietoso con il Regno Unito, in cui gli investimenti del 2019 sono più di 11 miliardi, ci basta la Spagna, che con un miliardo e 300 milioni ci ha già più che doppiato. Nell’elenco delle città più innovative d’Europa Milano è piuttosto in basso, dodicesima per numero di compagnie tech fondate e quindicesima per capitale investito (Roma è citata una volta soltanto in tutto il lungo report, nella classifica degli affitti più costosi). Il ritardo tecnologico italiano ha molti padri e madri, e le sue origini affondano negli ultimi decenni. Oggi, per raddrizzare la situazione servirebbe una nuova politica industriale digitale, ma cosa sta facendo il governo a riguardo? Quasi niente, anzi: a giudicare dall’attività di questi mesi, sembra che la situazione sia destinata a peggiorare.
Se la decisione di istituire un ministero per l’Innovazione nel governo Conte 2 aveva fatto sperare, la scelta a sorpresa di affidare l’incarico a Paola Pisano, ex assessora del comune di Torino a guida grillina, si è rivelata discutibile. In questi mesi la ministra, come già a Torino, è stata più interessata a fare comunicazione squillante che innovazione, ha annunciato di essersi conquistata per il suo dipartimento decine di milioni di euro a Finanziaria non approvata, non è ancora riuscita a nominare un vero staff. In un’intervista concessa ieri al Corriere della Sera, la ministra Pisano ha annunciato che nella legge di Bilancio sarà presentato un emendamento per centralizzare sotto lo stato le attività di assegnazione dell’identità digitale che adesso sono affidate a imprese private senza considerare che quell’emendamento era già stato definito inammissibile in due occasioni precedenti, sia nella legge di Bilancio dell’anno scorso sia nell’ultimo decreto fiscale, perché tra le altre cose approntare nuove strutture di identità digitale senza l’approvazione dei nostri partner europei ci metterebbe in contrasto con regolamenti e direttive Ue.
Tra le iniziative della politica digitale del governo trapelano la centralizzazione sotto lo stato del sistema Pec, la centralizzazione sotto lo stato del sistema di notifiche digitali della Pa e la centralizzazione delle strutture governative che si occupano di politiche digitali, che in gran parte finiranno sotto al nuovo dipartimento per la Trasformazione digitale di cui sarà direttore Luca Attias, il commissario per la Digitalizzazione. Saranno centralizzate sotto al dipartimento anche alcune competenze relative alla cybersicurezza. L’idea dietro al dipartimento è quella di centralizzare anche le competenze tecnologiche: se prima si mirava a un modello federato in cui erano i privati a erogare molti servizi, in base all’idea che la Pubblica amministrazione non può avere la reattività necessaria a operare in un mercato sempre in movimento, adesso l’intenzione è quella di gestire tutto a livello centrale, compresa la creazione delle app e delle strutture digitali, con competenze interne. Cominciate a notare un trend? La strategia digitale del governo ha poco a che fare con l’innovazione e molto con l’ideologia: centralizzazione e attivismo di uno stato controllore al posto di un modello federato e plurale, che poi sarebbe anche il modello di internet stesso. Report come quello di Atomico mostrano che i paesi di maggior successo nel campo della tecnologia sono quelli in cui lo stato abilita e favorisce la libera impresa. Vigila sul mercato ma non cerca di sostituirsi ai privati. Il governo va in direzione contraria.
A proposito di vigilare sul mercato: a completare il quadro c’è la gestione delle nomine delle authority. Il candidato di punta per guidare l’Agcom, Marco Bellezza, fino al 2019 ha difeso Facebook in alcune cause legali; i due candidati più papabili per diventare il prossimo Garante per la privacy sono Oreste Pollicino, anche lui ex avvocato Facebook negli anni scorsi, e Guido Scorza, l’avvocato che ha combattuto per il M5s la battaglia contro la direttiva europea sul copyright, mossa molto apprezzata da Google. Insomma, a capo delle due agenzie italiane che dovrebbero sorvegliare sulle piattaforme di internet potrebbero finire uomini che negli anni passati sono stati molto vicini alle piattaforme stesse. Sono tutti nomi espressi dal M5s, così come Paola Pisano. Sulle politiche digitali il Pd, l’altro grande partner del governo, è inerte.