Perché Apple non vuole sbloccare gli iPhone dei terroristi?
Il rischio è quello di dare al dipartimento di Giustizia americano la chiave per accedere non soltanto allo smartphone dell’attentatore, ma a tutti gli iPhone del mondo
Milano. E’ ricominciata la guerra della crittografia tra Apple e il dipartimento di Giustizia americano. William Barr, il procuratore generale, ha chiesto all’azienda di Cupertino di aiutare l’Fbi a sbloccare i due iPhone di Mohammed Alshamrani, un militare saudita che a dicembre ha ucciso tre persone e ne ha ferite otto in una base militare a Pensacola, in Florida, dove si trovava assieme ad altri sauditi per un programma congiunto di addestramento tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Alshamrani aveva con sé due telefoni, un iPhone 5 e un iPhone 7. Quando ha cominciato a sparare, ha buttato uno dei due telefoni a terra e l’ha centrato con un colpo di arma da fuoco, come per distruggerlo ed evitare che fosse possibile ottenere i dati che c’erano al suo interno. I tecnici dell’Fbi sono riusciti a ricostruire il telefono e a farlo funzionare di nuovo, ma c’è un problema: non riescono a sbloccarlo. Gli iPhone sono crittati, e questo significa che serve una chiave di sicurezza (a seconda dei modelli un codice numerico, l’impronta digitale del possessore o la sua scansione del volto) per accedervi. Senza chiave, gli iPhone rimangono inaccessibili.
A quel punto, il dipartimento di Giustizia ha chiesto aiuto ad Apple. Apple ha fornito tutti i dati che aveva in suo possesso in relazione ad Alshamrani, ma quando l’Fbi ha chiesto aiuto per sbloccare i due iPhone Apple ha detto no. Per come è fatta la crittografia end-to-end dei sistemi di Apple, sbloccare i due iPhone dell’attentatore saudita significherebbe creare una backdoor, e questo vorrebbe dire: dare al dipartimento di Giustizia la chiave per accedere non soltanto agli iPhone dell’attentatore, ma a tutti gli iPhone del mondo. Questo, dice Apple, è molto pericoloso. Anzitutto perché è bene fidarsi del dipartimento di Giustizia americano, ma quando si parla di sicurezza digitale è meglio non fidarsi di nessuno; in secondo luogo perché se gli americani fossero disattenti e la chiave finisse in mani sbagliate, allora sarebbero guai seri. E’ già successo qualcosa di simile pochi anni fa: la Nsa americana, vale a dire l’agenzia faderale che si occupa di hackeraggi e spionaggio digitale, fu a sua volta hackerata, e le sue potentissime armi digitali finirono nelle mani di malintenzionati, che per anni hanno fatto guai grossi in giro per mezzo mondo.
Bill Barr, tuttavia, vuole la sua backdoor, e per questo lunedì ha dichiarato che l’attacco a Pensacola è stato un atto di terrorismo. Questo rende più cogente per Apple lo sblocco degli iPhone, ma la compagnia continua a negarsi. Ci sono in gioco due diverse forme di sicurezza: quella dell’Fbi e del dipartimento di Giustizia, che vuole difendere gli americani dalla minaccia terroristica (con buoni argomenti, si potrebbe perfino ipotizzare che quei due iPhone contengano informazioni utili per sventare altri attentati); e quella di Apple e di tutti gli attivisti per i diritti digitali, secondo i quali il gioco non vale la candela: per avere più informazioni su un singolo caso si mettono a rischio milioni di utilizzatori di iPhone.
La guerra della crittografia era già cominciata nel 2015. Dopo l’attentato terroristico di San Bernardino, si verificò uno scontro simile tra Apple e l’Fbi. Ma è ancora più antica, e risale agli anni Novanta, la richiesta da parte degli stati di applicare sistemi di controllo ai dispositivi digitali. Nel 2015 lo stallo fu interrotto quando una terza compagnia trovò un modo di hackerare e sbloccare l’iPhone del terrorista, ma da allora Apple ha cambiato la sua crittografia, e quell’escamotage non funziona più. Serve un’altra compagnia che faccia il lavoro sporco, mentre la battaglia insanabile sulla sicurezza va avanti.