Milano. Modello singaporiano, modello taiwanese, modello sudcoreano: in Italia cresce il consenso attorno a operazioni di sorveglianza dei movimenti delle persone per prevenire i contagi da coronavirus, “abbattere la curva” con maggiore efficienza ed evitare, una volta che il lockdown sarà finito, che nascano nuovi focolai. Scienziati ed economisti lanciano appelli ricordando le “tre T” dell’Oms: trace, test and treat, dove la prima T sta per rintracciare, e dunque sorvegliare. Il governo sembra recettivo all’idea. Gli attivisti per la privacy sospirano, ché qualsiasi operazione di tracciamento significa comunque una compressione dei diritti personali, che va resa più piccola possibile. Ma tutti guardano alla Corea e a Taiwan, dove non c’è lockdown e dove i casi sono in riduzione (Corea) o pochissimi (Taiwan) e pensano: dobbiamo fare come loro, dobbiamo creare un’infrastruttura tecnologica che ci consenta di tenere a bada il virus caso per caso. C’è una manciata di progetti, tutti di privati, che attualmente sono in fase di sviluppo. Quello più completo, e più vicino a essere realizzabile, è di un consorzio di quattro aziende del settore tecnologico e sanitario, che assieme hanno creato una no profit.
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