Tutelare privacy e salute si può, basta farsi le domande giuste
Il contact tracing e il fallimento di una politica che abdica alle sue responsabilità delegando questioni strategiche ad un’armata di tecnici
Tutela della salute pubblica o privacy? La polarizzazione, fenomeno endemico nei social network, rischia di trasformare anche il più posato degli accademici in un tifoso da curva. Con il risultato che il dibattito, partendo da domande sbagliate, finisce con il produrre risposte sbagliate. È evidente che se si rappresenta il problema come si è fatto in questi giorni, ponendo in contrapposizione privacy e sopravvivenza, la risposta sarà ovvia: si rinunci pure alla privacy, alla libertà, a qualsiasi cosa. Tutto pur di rimanere in vita. Diverso sarebbe stato chiedersi come evitare la diffusione del contagio utilizzando strumenti di tracciamento digitali senza con ciò intaccare gli altri diritti fondamentali dell’individuo. Che è quanto chiedono anche le Nazioni unite e la stessa Organizzazione mondiale della sanità.
Si sarebbe evidenziato, così, come non sia socialmente sostenibile una compressione dei diritti fondamentali dell’individuo che arrivi a concepire un sistema atto a sorvegliarne i movimenti, le persone con le quali viene in contatto, il suo stato di salute. I rischi sono troppo alti. E proprio in questi giorni si è visto che nessun sistema informatico è assolutamente sicuro. Inps docet. Proporre sistemi che prevedano l’archiviazione di dati così delicati in archivi centrali presenta troppe incognite. Sia sull’uso che potrebbe farne la Pa sia sull’entità dei rischi connessi in termini di sicurezza.
Ha senso, quindi, chiedere alle aziende di proporre soluzioni senza porre condizioni minime di sostenibilità digitale delle soluzioni proposte? Ha senso creare un comitato di 74 persone che dovrebbe vagliare centinaia di proposte? No. Non ha senso. È il fallimento di una politica che abdica alle sue responsabilità delegando questioni strategiche ad un’armata di tecnici che si troveranno nell’impossibilità di fare scelte accorte. La politica avrebbe dovuto fare ciò che si fa in condizioni di emergenza: prendersi la responsabilità di decidere. Di coinvolgere quei grandi attori nazionali che già gestiscono molti dei dati necessari ed hanno competenze, capacità e dimensioni per realizzare in breve tempo una soluzione. Di indicare loro che il principale obiettivo è quello di tutelare la salute delle persone, certo. Ma anche decidere se – perché è una scelta politica – la tutela degli altri diritti fondamentali dei cittadini dovesse rappresentare o meno un vincolo. Questo avrebbe messo nelle condizioni i tecnici di operare sulla base di scelte politiche chiare. E non di delegare tali scelte ad un gruppo così vasto che la responsabilità sarà tanto condivisa da non essere di nessuno.
Se ci si fosse fatti la domanda corretta sarebbe emerso che la soluzione per tutelare la salute pubblica senza annichilire la privacy dei cittadini esiste, ma non può basarsi sulla centralizzazione dei dati. Si basa, invece, sul concetto di self sovereign identity. Quel concetto per il quale le informazioni del cittadino sono e restano nelle mani del cittadino: ad essere condivisi sono i risultati dell’elaborazione di quelle informazioni. Un po’ come quando si entra in un locale per adulti: si deve dimostrare di essere maggiorenni. Ma per farlo si mostra il proprio documento d’identità, condividendo così anche altre informazioni: data di nascita, residenza, il proprio nome. Una carta d’identità intelligente dovrebbe invece mostrare soltanto il minimo indispensabile: “Ho più di 18 anni, quindi posso entrare”. Allo stesso modo, un’applicazione per il contact tracing non deve comunicare chi ha incontrato chi, né come e dove. Né deve archiviare queste informazioni per ricostruire il grafo dei contagi. Deve, invece, limitarsi a segnalare che lo smartphone di un utente si è avvicinato a quello di una persona a rischio. E deve far si che l’utente possa comunicarlo alle autorità sanitarie, per i dovuti controlli. Senza archiviare nulla. Senza rischiare nulla. È possibile. Le tecnologie esistono. Ma per tirarle fuori era necessario porre la domanda giusta.
*direttore del Digital Transformation Institute, Autore di Sostenibilità Digitale