La app per il tracciamento non è la panacea, dice il prof. Zanero

David Allegranti

“La app, che non serve nel pieno dell’epidemia, fa parte di una triade di prevenzione: trace, test e treat. Sarà utile per evitare una seconda ondata”. Parla il docente al Politecnico di Milano

Roma. Da giorni una parte del dibattito pubblico è spostata su una non meglio precisata app per il contact tracing alla quale sta lavorando un task force di esperti su indicazione del governo. Ma, avverte il professor Stefano Zanero, informatico e docente al Politecnico di Milano, è sbagliato pensare che sia una app “salvifica”.

 

“La app, che non serve chiaramente nel pieno dell’epidemia, dalla quale stiamo cercando di uscire, fa parte di una triade che è trace, test e treat con cui si prevengono le epidemie”, dice al Foglio Zanero, che da settimane spiega su Twitter perché una app senza una strategia complessiva serve a poco. La app serve appunto per evitare una seconda ondata di contagi. “Non è una cosa che stiamo imparando adesso; il procedimento è anzi molto tradizionale. Per evitare il contagio, dobbiamo trovare le persone malate. Quando ne trovi una, procedi a tappeto analizzando tutti i contatti che ha avuto; i positivi li tratti mettendoli in isolamento e li curi in maniera preventiva. Ma siccome non abbiamo una cura, in questo caso, li monitori prima che diventino critici. Bene, questa è la teoria. Poi c’è la pratica”.

 

E la pratica prevede, appunto, una strategia complessiva. “La app è un pezzettino della trace: un pezzo di un pezzo della strategia. La app serve a evitare di saturare di nuovo le terapie intensive, cioè a non farci ricominciare daccapo. Io non so se serva e ho qualche dubbio ma i virologi e gli epidemiologi dicono che il contact tracing manuale è lento e oneroso, quindi va supportato elettronicamente. Ognuno di noi sta usando il meglio delle nostre conoscenze in una situazione completamente diversa. Se qualcuno mi dicesse, in condizioni normali, di usare una app per il tracciamento con il bluetooth risponderei: ‘Col cavolo’”.

 

Questa però è una situazione eccezionale e servono anche misure eccezionali. Quindi un bilanciamento fra diritto alla salute e diritto alla privacy. L’importante è che ci sia appunto un equilibrio. Perché non solo la mitologica app da sola non serve a niente, ma potrebbe pure causare non pochi danni alla privacy dei cittadini qualora ci fossero delle falle (il caso Inps, d’altronde, insegna). “Il caso di Trace Together usato a Singapore è molto utile. Chi l’ha sviluppata ha spiegato che la app non sostituisce il resto della strategia. E l’ha detto chi l’ha realizzata, non il governo che l’ha acquistata. Di nuovo: la app è un supporto ma non può sostituire il contact tracing manuale”.

  

Se non c’è organizzazione uno può avere la app più perfezionata al mondo ma le domande restano inevase: “Se uno è positivo in quali ospedali va? Se uno si sente i brividi cosa fa? Va di nuovo nei pronto soccorso come è accaduto in Lombardia o va in una fever clinic come in Corea del Sud, dove ci si mette la mascherina, si mantiene la social distance e non ci si dà la mano per non infettarsi? Se siamo stati in grado di chiuderci un mese e mezzo a casa, siamo anche in grado di fare queste cose. Quindi, la app va bene. Ma poi cosa si fa? Se ti arriva l’alert per comunicarti che sei stato vicino a un positivo, come ti devi comportare?”.

 

Per questo servono i tamponi, dice Zanero, “ma quanti ne servono? Quanti sono veloci i test? Chi è positivo lo mandiamo a casa con la nonna di 90 anni o in un albergo?”. Insomma, le domande sono molte e la ricerca di un piano complessivo doverosa. Piano che magari c’è ma non si vede. “Ben vengano le task force, tutte quelle che servono, ma ognuna di queste è un pezzettino del piano di cui abbiamo parlato finora. Il dibattito sulla app va a innestarsi su una strategia più ampia”.

 

Peraltro, a seconda di come è fatta la app, gli interrogativi e le preoccupazioni sulla sua utilità e il suo uso cambiano. Bluetooth o gps? La questione non è secondaria. “Il gps è enormemente più invasivo e andrebbe usato solo se veramente, profondamente indispensabile. E io non sono del tutto sicuro che lo sia”. Anche perché i dati sugli spostamenti delle persone non sono neutri, diciamo. “Se una persona, per dire, è andata a fare un giro in un motel con qualcun altro magari ti dice che la app non ce l’ha. A quel punto il vantaggio del contact tracing viene perduto”.

  

La discussione è insomma complicata. Anche perché in parte prevede l’uso di tecnologia, in parte ci sarà comunque un altro essere umano - un operatore sanitario - a dover verificare le condizioni di un contagiato appena risultato positivo. “I dati delle app, che non dovranno essere accumulati da nessuna parte ma dovranno restare esclusivamente sul cellulare di quella persona, dovranno essere integrati da una intervista sugli spostamenti dell’eventuale contagiato una volta ricevuto l’alert sul cellulare. Anche in questo caso, le domande non mancano: dove viene fatta questa intervista ai positivi? Si fa un tampone? E siccome per ricevere i risultati del tampone occorre del tempo, cosa deve fare un contagiato nell’attesa? Insomma, la app è importante ma ancora più importante è il processo. Spero che qualcuno se ne stia occupando”. 

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.