Ci accorgiamo solo adesso dei problemi della vita in streaming. Censure e giustizia
Zhou Fengsuo, un attivista cinese che vive negli Stati Uniti, si è visto chiudere il suo account a pagamento dopo che il 31 maggio aveva tenuto su Zoom una commemorazione del massacro di piazza Tiananmen
Milano. Sul futuro post coronavirus ci sono due scuole di pensiero. Una sostiene che il virus cambierà tutto, che la nostra vita è stata sconvolta per sempre e nulla sarà più come prima. L’altra, invece, sostiene che il Covid non è che una parentesi, basta stringere i denti fino al vaccino e poi tutto tornerà come ai vecchi tempi, e del virus ci dimenticheremo in fretta. In mezzo a queste due opzioni estreme c’è la vita quotidiana, che almeno in Europa sta tornando in parte alla normalità, ma che ancora per un anno, fino alla scoperta del vaccino, sarà fatta di mascherine, distanziamento, plexiglas dappertutto e Zoom. Tantissimo Zoom. Per le videoconferenze, per le interviste, per i colloqui, per le riunioni, per i saluti con gli amici all’estero. Lo sappiamo che Zoom in questo periodo è diventato onnipresente, ormai ha scavalcato Skype nell’immaginario occidentale quando si parla del servizio di teleconferenze per antonomasia, ma che sia Zoom, Skype o Google Meet di una cosa sono tutti certi: finché non arrivano un vaccino o una cura, o finché il coronavirus non sparisce per mutazione o per magia, le comunicazioni in streaming ce le dovremo tenere.
E se Facebook ci ha insegnato in questi dieci anni quanto è difficile e controverso disintermediare online i rapporti interpersonali in forma scritta, soltanto adesso stiamo capendo cosa significa affidare al digitale anche una parte consistente dei nostri rapporti dal vivo – ché ormai sono ricominciati gli aperitivi, ma i rapporti di lavoro, di studio e istruzione, e perfino la diplomazia rimangono tutti in streaming.
Come avviene con Facebook, affidare le proprie comunicazioni a una compagnia privata porta a inconvenienti. Se n’è accorto Zhou Fengsuo, un attivista cinese che vive negli Stati Uniti e che si è visto chiudere il suo account a pagamento dopo che il 31 maggio aveva tenuto su Zoom una commemorazione del massacro di piazza Tiananmen con 250 partecipanti in Europa, America e Cina. Lo stesso è avvenuto ad altri attivisti. Zoom ha detto che gli account sono stati cancellati in ottemperanza alle leggi locali, che sarebbero quelle cinesi, ma lo scandalo pone molte domande: perché Zoom ha applicato la censura cinese in una chiamata streaming internazionale? E soprattutto come ha fatto a sapere che in quella chiamata privata si commemorava Tiananmen? Non è un buon precedente per una compagnia come Zoom, che ha un terzo dei suoi dipendenti e alcuni server in Cina.
Ci sono altre buone ragioni per non riporre troppe speranze in un futuro in streaming. Sul sito americano The Markup, la giornalista Lauren Kirchner ha raccontato come il mese scorso in Texas abbia avuto luogo il primo processo penale via Zoom, con tutta la giuria e gli avvocati collegati da casa. Il giudizio riguardava una questione da poco, ma gli Stati Uniti hanno già precedenti di amministrazione della giustizia via video (“Zoom Justice”, la chiama Kirchner), e non sono andati bene. E’ da trent’anni, infatti, che alcuni tribunali americani usano le telecamere a circuito chiuso per certi tipi di procedimenti come quelli per fissare la somma della cauzione, e le ricerche hanno mostrato che quando la decisione viene presa via video l’ammontare delle cauzioni è mediamente del 51 per cento più alto. Il video, infatti, ha un effetto deumanizzante, perché ci priva di tutti quegli elementi (poter sostenere lo sguardo di un’altra persona, studiare le espressioni facciali, ascoltare la modulazione della voce) che generano empatia tra esseri umani. Come ha scritto su queste pagine Catello Vitiello, celebrare un processo da remoto significa pregiudicare diritti e garanzie, specie per gli imputati. Forse tutto cambierà con il coronavirus, ma speriamo di poterci liberare presto di questo nuovo mondo via streaming.