Il boicottaggio di Facebook mostra che la neutralità social è impossibile
Alcuni grandi brand, i due più famosi sono North Face e Patagonia, hanno annunciato che ritireranno la loro pubblicità dalla piattaforma in protesta contro l’inazione del social network
Milano. Da anni Mark Zuckerberg, il ceo di Facebook, è ossessionato dalla neutralità. Dall’idea che per costruire un impero da oltre due miliardi di persone bisogna giocare d’equilibrismo, tenersi buoni i progressisti e non fare arrabbiare i conservatori, favorire i governi, ché i governi possono farti male, ma ricordarsi che poi a un certo punto le opposizioni diventeranno governi a loro volta. Non è una cattiva strategia, per un business multimiliardario. Il problema è che Facebook non è un business qualunque, è un social network immerso nella politica e nell’attualità, che assieme al fratellino Instagram è diventato uno strumento essenziale per le campagne elettorali, le attività di protesta e di raccolta fondi, le cause umanitarie, la diffusione delle notizie, la gestione del traffico dei giornali, e così via. Per anni Zuckerberg ha cercato di non farsi sfiorare dal mondo, ma la neutralità è impossibile, perché il mondo è dentro a Facebook.
L’impossibilità di rimanere neutrali è ben dimostrata dal fatto che negli ultimi giorni alcuni grandi brand hanno annunciato che boicotteranno Facebook in protesta contro l’inazione del social network. I due più famosi sono North Face e Patagonia, che ritireranno la loro pubblicità da Facebook e da Instagram per tutto luglio e continueranno finché non vedranno riforme, perché “la posta è troppo alta per rimanere fermi e lasciare che la compagnia [Facebook] continui a essere complice nella diffusione di disinformazione e nel fomentare paura e odio”, come ha scritto in un comunicato il capo del marketing di Patagonia. Hanno annunciato il boicottaggio anche Rei, un’altra azienda americana di abbigliamento tecnico, UpWork, un portale online per freelance e alcune aziende di software meno note. La scorsa settimana i360, che è una grossa agenzia pubblicitaria che tra gli altri rappresenta Unilever, ha esortato i suoi clienti a boicottare Facebook, ha scritto il Wall Street Journal. Allo stesso modo Nancy Pelosi, la speaker democratica della Camera, ha chiesto agli inserzionisti privati di usare il loro potere per convincere i social network a combattere le fake news con più decisione. Il boicottaggio nasce dalla campagna di una serie di associazioni tra cui la Anti-Defamation League, ha come primo movente il sostegno alle proteste contro il razzismo negli Stati Uniti ma riguarda anche i tanti casi di antisemitismo, falsità sulle elezioni e disinformazione su cui Facebook ha lasciato correre. Una rappresentante di Facebook ha detto che l’azienda ha tra i suoi obiettivi primari “rimuovere l’hate speech e fornire informazioni elettorali essenziali”.
Al netto della bontà e delle ragioni della campagna, il cui obiettivo di porre fine alla promozione dell’odio su Facebook è nobile ma le cui proposte sono poco definite, la questione interessante è che la ragione del boicottaggio è l’inazione di Facebook. Per anni Zuckerberg ha pensato che il miglior modo per mantenere la neutralità fosse non muoversi troppo. Troll russi cercano di influenzare le elezioni? Meglio agire soltanto per il minimo indispensabile, per non urtare la parte favorita dall’intervento dei troll. Il presidente degli Stati Uniti chiede all’esercito di sparare sui manifestanti? Quei messaggi hanno un valore politico, ha sostenuto Zuckerberg, che ogni volta cerca di reinterpretare le policy per sostenere la propria inazione. Ma anche il ceo di Facebook si sta accorgendo, a proprie spese, che la neutralità sui social media non esiste. Specie in un panorama politico polarizzato, decidere di non agire significa prendere una posizione. Evitare la politicizzazione è impossibile, al principio della neutralità Zuckerberg dovrebbe sostituire quello della responsabilità. Anche perché pure la falsa neutralità danneggia il business: l’azienda madre di North Face, che si chiama VF Corp. e ha altri brand come Timberland e Vans, l’anno scorso ha speso 756,3 milioni di dollari in pubblicità, con Facebook come suo secondo partner.