I conti del boicottaggio
Le multinazionali tolgono la pubblicità da Facebook, ma non fanno così tanto male a Zuckerberg
Milano. Il boicottaggio contro Facebook è nato come un fatto laterale, promosso da alcuni gruppi di attivisti per i diritti civili e portato avanti da poche aziende medio piccole e settoriali come North Face e Patagonia, ma piano piano è cresciuto fino a diventare una valanga. In pochi giorni si sono uniti giganti come Unilever, Coca-Cola e Starbucks, alcuni metteranno in pausa le loro pubblicità sui social per un mese, altri fino alla fine dell’anno, perché in queste settimane essere associati a Facebook è diventato tossico, visto che il social network non riesce a limitare il diffondersi dei discorsi d’odio e razzismo dei suprematisti bianchi, degli antisemiti e soprattutto del presidente degli Stati Uniti. (Molti cominciano a sospettare che Facebook non voglia: ieri sul Washington Post si raccontava di come tutte le volte che Trump ha violato una regola di Facebook, Facebook abbia cambiato la regola per accomodare la violazione). E insomma, il boicottaggio di Facebook, che presto è diventato boicottaggio dei social prendendo dentro anche Twitter, è diventato come una valanga che ha cominciato ad avere effetti gravi: negli ultimi giorni il titolo in Borsa del social network è andato più volte in rosso, in una riunione interna con gli inserzionisti un dirigente ha detto che Facebook soffre di un “deficit di fiducia”, e venerdì scorso Zuckerberg ha annunciato per la prima volta che alcuni post di politici potrebbero essere sottoposti a fact checking. Sembra che la campagna sia un successo, e infatti gli organizzatori vogliono estenderla anche all’Europa, ma l’economia del boicottaggio è un po’ più complessa di così. Anzitutto, ha scritto la Cnn, le spese pubblicitarie dei 100 più grandi inserzionisti di Facebook, in cui rientrano molte delle multinazionali che hanno aderito al boicottaggio, ammontano in totale ad appena il 6 per cento delle entrate annue del social network. Se Facebook perdesse i suoi cento maggiori inserzionisti, il danno economico si risentirebbe ma sarebbe limitato.
Il fatto è che la stragrande maggioranza delle entrate pubblicitarie di Facebook – circa il 75 per cento, ha scritto l’analista Benedict Evans – proviene da attività di piccole e medie dimensioni, e dunque perfino giganti come Unilever e Starbucks rischiano di non avere sufficiente peso economico per indurre cambiamenti reali all’interno di Facebook. (Questo sempre che l’obiettivo delle grandi aziende sia generare cambiamento: alcuni osservatori hanno detto cinicamente che il boicottaggio potrebbe essere un modo per dare una coloritura morale a un taglio degli investimenti pubblicitari dettato dalla crisi da coronavirus). C’è un altro grande ostacolo al cambiamento dentro a Facebook: una campagna di boicottaggio ben coordinata potrebbe far saltare il ceo di qualunque grande multinazionale, ma non di Facebook. L’assetto societario dell’azienda fa di Mark Zuckerberg un dittatore assoluto, inamovibile e sempre meno illuminato.
C’è tuttavia anche un’ulteriore piccola variabile che Facebook non sta considerando. Questo boicottaggio, oltre che un movimento interessante e controverso che lega assieme capitalismo e giustizia sociale, è un gigantesco esperimento, forse il primo, dell’efficacia della pubblicità su internet. Ora, sappiamo che la pubblicità non è una scienza esatta. Quando un inserzionista pubblica uno spot televisivo o un annuncio su un giornale non c’è modo di quantificare quante persone hanno comprato il suo prodotto perché hanno visto le pubblicità e quante l’avrebbero fatto lo stesso. Si possono fare delle stime, ma niente di esatto. I grandi pubblicitari di internet, Facebook e Google per primi, hanno dato alle aziende l’illusione di avere più controllo. Possono dire all’inserzionista qual è stato il “reach” del suo annuncio, contare le visualizzazioni di uno spot, creare infografiche avvincenti. Generano l’illusione che la pubblicità sia stata efficace, ma la verità è che nemmeno loro lo sanno per certo, e ci sono studi e aneddoti a dimostrarlo, come quando un paio d’anni fa si scoprì che Facebook aveva gonfiato le stime delle visualizzazioni dei suoi video tra il 150 e il 900 per cento. Come hanno scritto qualche tempo fa Jesse Frederik e Maurits Martijn in un articolo per The Correspondent, spesso il legame tra la pubblicità online e l’aumento delle vendite è una correlazione su cui molti economisti sono scettici. Tra questi c’è Steve Tadelis, economista di Berkeley che nel 2011 convinse eBay a smettere di comprare pubblicità su Google per tre mesi. L’azienda spendeva milioni di dollari in pubblicità online e tutti temevano il crollo, ma non successe assolutamente niente. Molti esperti del settore in seguito hanno cercato di smontare il caso eBay, ma forse il boicottaggio dei social del 2020 potrebbe diventare un precedente: Facebook non ha molto bisogno delle multinazionali, ma se le multinazionali si accorgessero che non hanno molto bisogno di Facebook?