Tutto su Twitter
È una formica come numero di utenti ma un gigante come influenza pubblica, vedi la cancel culture
Milano. Le due dimissioni che due giorni fa hanno alimentato con nuova forza il dibattito sulla cancel culture sono avvenute su Twitter e per Twitter. Andrew Sullivan, di cui potete leggere qui, ha annunciato che avrebbe lasciato il New York Magazine con un tweet. Bari Weiss invece si è dimessa dalla sezione opinioni del New York Times con una lettera sul suo sito personale, nella quale però ha scritto che Twitter è diventato il direttore del giornale, e che gli articoli sono scritti in funzione delle orde su Twitter o non scritti per paura delle orde su Twitter.
La cancel culture è un fenomeno eminentemente twittarolo: poco più di due anni fa, sul New York Times, il giornalista Jonah Engel Bromwich pubblicava uno dei primissimi articoli che ne parlavano. L’articolo si intitola “Everyone Is Canceled” e letto oggi è sorprendente, perché allora la cancel culture era una curiosità giovanile, una cosa da ragazzini che “cancellavano” le celebrity decadute, come Taylor Swift dopo un litigio con con Kim Kardashian, e in effetti lo stesso Bromwich è un giornalista della sezione Style, non di quella culturale o politica. La cancel culture ne ha fatta un bel po’ di strada da quei primi tempi, è diventata più minacciosa e più oscura e potente, ma già allora era soprattutto su Twitter.
A ben pensarci, un sacco di cose sono su Twitter, compreso il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che via Twitter licenzia i suoi collaboratori e quasi quasi dichiara guerra alla Corea del nord. Tutta questa influenza rende Twitter una bestia strana, perché se si parla di meri numeri, è un social network minore, piccolo piccolo. Ha circa 320 milioni di utenti attivi al mese, che non aumentano dal 2015. E’ un nanetto in confronto a Facebook, che ha 2,6 miliardi di utenti. Twitter ha lo stesso numero di utenti di Pinterest, ma Pinterest quasi nessuno sa cos’è, mentre su Twitter si sviluppano fenomeni culturali, si fa politica e nasce la cancel culture.
I principali esecutori della cancel culture sono le “Twitter mobs”, le orde di Twitter che si avventano sugli avversari ideologici, negli Stati Uniti ma sempre più anche in Europa e in Italia. Le campagne per costringere alle dimissioni, al licenziamento o alla censura accademici, scrittori o personalità colpevoli di pensarla diversamente dai cancellatori si sono svolte tutte su Twitter. La reazione alla lettera in difesa della libertà d’espressione pubblicata su Harper’s Magazine e firmata da 153 esponenti del mondo culturale anglosassone è stata misurata su Twitter, e gli attacchi più feroci contro i firmatari si sono svolti su Twitter. Sul Washington Post, la columnist Megan McArdle ha scritto che uno dei problemi della cancel culture su Twitter è proprio Twitter: 280 caratteri sono fatti per gli slogan e per i commenti sagaci, non per argomentazioni sfumate sul valore della libertà d’espressione, e il risultato è che di slogan in slogan si finisce per urlarsi in faccia, digitalmente.
È probabile che la ragione principale dell’influenza sproporzionata di Twitter sia Donald Trump. Il presidente americano è ossessionato dal social network, twitta decine di volte al giorno, e la sua presenza ha amplificato il fatto che Twitter è il social network dei politici, dei giornalisti e di chi li segue. Mentre Facebook è il social dell’amplificazione algoritmica, quello in cui le cose piccole diventano grandi – e questo vale tanto per la propaganda russa quanto per il video dell’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto, che ha scatenato le proteste Black Lives Matter – Twitter è il social dell’influenza, una conventicola ristretta in cui si incontra chi è abituato a plasmare il dibattito pubblico. Il ceo Jack Dorsey è consapevole di questa natura superpolitica di Twitter, e da anni cerca di gestire il discorso che si svolge sulla sua piattaforma, con buoni risultati. Twitter è il più severo di tutti nel fact checking delle affermazioni dei politici, cosa che ha fatto infuriare Trump, ed è creativo nei modi in cui cerca di rendere più civile il dibattito. Per esempio, presto consiglierà di leggere l’articolo che state condividendo, se la piattaforma si accorge che non l’avete fatto e vi siete lasciati attirare soltanto dal titolo acchiappaclic. Ma contro le orde di Twitter c’è poco da fare. Le orde non si alimentano grazie all’algoritmo, come fanno i troll e gli estremisti su Facebook, ma soltanto grazie alla rabbia.