(LaPresse)

Una svolta possibile

Aggiustare internet

Luciana Grosso

La proposta di Applebaum e Pomerantsev per salvare la rete (ispirandosi alla radio)

 

Riparare internet (o meglio, i suoi figli più scapestrati: i social): si può? La risposta è sì e la strada per farlo non è nemmeno così impervia, richiede soltanto la fatica di essere intrapresa. A dirlo sono Anne Applebaum, giornalista e saggista, e Peter Pomerantsev, scrittore di origine russa, naturalizzato inglese e il cui ultimo libro si intitola “Questa non è propaganda” ed è dedicato alle forme, percettibili e impercettibili, della propaganda. Attraverso un lungo e documentato articolo sull’Atlantic i due scrivono che internet è diventato quel che non è (un luogo di violenza, menzogna e soppressione del dibattito) invece di quel che è davvero (un luogo di democrazia, verità, e confronto).

 

Ora occorre solo rimetterlo in carreggiata. La soluzione passa per l’individuazione della sua causa: gran parte delle piazze virtuali sono di proprietà di aziende che come obiettivo non hanno il bene degli stati e delle persone, ma i loro stessi profitti. Non ci sarebbe niente di male non fosse che, si legge sulla rivista americana, peggiori sono i contenuti online, più alti diventano i guadagni per Big Tech. “La conversazione è governata non da consuetudini e tradizioni consolidate al servizio della democrazia, ma da regole stabilite da poche società a scopo di lucro e gli utenti spesso rimangono sul sito per connettersi ad altri estremisti, o per sentire i loro pregiudizi rafforzati”. Dunque come curare un sistema (quello dei social) che ha il suo maggior punto di forza nel farci perdere la brocca? Con le persone.

 

L’Atlantic ha intervistato Nathan Matias, responsabile del Citizens and Technology Lab alla Cornell University, che spiega: “Gli algoritmi sono diversi da qualsiasi altro prodotto: un’auto è sempre la stessa chiunque la guidi. Ma gli algoritmi cambiano al variare del comportamento umano, sono organismi viventi che interagiscono con noi”. In pratica internet ci dà quello che cerchiamo e che rendiamo possibile. Se chiediamo contenuti di qualità ci dà qualità, se indugiamo davanti alle fake news o contenuti di odio, ci dà fake news e contenuti di odio. Per questo servono regole condivise, che normino l’anonimato, il tempo di reazione e la potabilità dei contenuti. E non ci si può aspettare che di scrivere queste regole si occupino le stesse aziende che beneficiano della loro totale assenza. Devono farlo le persone: “Politici, cittadini, scienziati, attivisti dovranno lavorare insieme per co-governare una tecnologia il cui impatto dipende dal comportamento di tutti”.

 

E se qualcuno pensa che non si possa fare, Applebaum e Pomerantsev rispondono che è già stato fatto, quasi un secolo: “Internet non è la prima tecnologia promettente a essere diventata distopica. È già successo con la radio che da strumento di pace e libertà divenne un formidabile strumento di diffusione della propaganda nazista”. A quell’epoca andò a finire che “in Gran Bretagna, John Reith, ebbe l’idea di una radio pubblica: non controllata dal governo, non pensata per il profitto. Nacque la Bbc”. Si è fatto dunque, e si può fare ancora. Lo spiega Ethan Zuckerman, dell’Università del Massachusetts: “Servono reti che abbiano una promessa sociale esplicita”. Anche qui l’esempio c’è e si trova in Vermont, dove il dibattito è stato spostato dai social a “Front Porch Forum, un sito dove regna sovrana la buona educazione di utenti registrati con identità verificate”. In pratica, conclude l’Atlantic, visto che abbiamo internet, non ci resta che usarlo: “Internet era il futuro una volta, e può esserlo di nuovo”.

 

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