Pure nella Cina orwelliana si parla di privacy
La sentenza contro il Safari Park di Hangzhou è la prima sul tema riconoscimento facciale e invasività dei controlli. Ma nulla dice sul potere del Partito
Durante i mesi più caldi delle proteste a Hong Kong, nell’estate del 2019, a un certo punto i manifestanti hanno iniziato a usare i puntatori laser contro le Forze dell’ordine. Di notte, l’effetto era simile a quello di un videogame. I laser però non servivano a creare l’effetto visivo di una battaglia urbana ultramoderna, ma a rendere difficile alle telecamere della polizia di riconoscere i volti dei manifestanti. Per settimane, prima di ogni azione, i ragazzi si arrampicavano sui pali per colorare con lo spray gli occhi delle telecamere di sorveglianza fisse. Subito prima dell’inizio della pandemia, il governo locale di Hong Kong ha dovuto proibire l’uso delle mascherine chirurgiche in strada, perché impedivano alle telecamere meno aggiornate il riconoscimento facciale di chi transitava nelle aree di manifestazione – poi con il virus il divieto è stato sollevato, e nel frattempo le telecamere cinesi si sono evolute, e ora, teoricamente, possono riconoscere il volto di una persona anche se indossa la mascherina. Quando si parla di sorveglianza di massa e riconoscimento facciale, l’esempio più orwelliano che viene fatto è quello della Cina. Dove la tecnologia, e la cessione di parte della propria privacy, è spesso parte integrante del patto sociale tra il Partito comunista cinese e i cittadini che chiedono controllo e sicurezza.
In “Red Mirror” (Laterza) Simone Pieranni scrive che l’epidemia da Covid è stata la prima emergenza nell’epoca dell’intelligenza artificiale: “Un uomo di Hangzhou che era appena tornato da Wenzhou era stato avvisato dalla polizia di non lasciare la propria abitazione e la targa della sua auto era stata registrata dalle videocamere”. L’uomo doveva restare in quarantena, ma era uscito lo stesso: poco dopo, sono andati a prenderlo vicino al lago: era stato avvistato da una telecamera con riconoscimento facciale. Più o meno in tutti i paesi sviluppati dell’Asia i cittadini sono disposti a cedere parte della propria privacy a favore di un maggiore controllo: succede anche nella democratica Corea del sud, dove le nuovissime “smart city” sono anche quelle più videosorvegliate. Ma appunto, la differenza la fa il sistema di governo, e la fiducia dei cittadini nell’istituzione che detiene quei dati. Il mese scorso il Los Angeles Times ha pubblicato un’inchiesta che mostrava come il software di riconoscimento facciale sviluppato dalla compagnia cinese Dahua – colosso delle telecamere di sicurezza – rileva l’etnia delle persone riprese dalla telecamera, e avvisa le forze di polizia quando identifica un uiguro, la minoranza etnica del luogo più sorvegliato della terra, la regione autonoma dello Xinjiang.
Ma il tema dell’invasività estrema della sorveglianza di stato e della privacy, in Cina, è dibattuto anche nella società civile cinese. La scorsa settimana c’è stata la prima sentenza storica sul riconoscimento facciale. Nel 2019 Guo Bing, docente di Diritto, aveva fatto causa allo zoo di Hangzhou che aveva modificato le modalità di accesso al parco, passando dall’impronta digitale al riconoscimento facciale. Il tribunale ha dato in parte ragione a Gou, e ha ordinato allo zoo di cancellare i dati del querelante e di pagare un risarcimento. Ma secondo Gou, come riportato dai media cinesi, il tribunale avrebbe evitato la questione chiave, e cioè il consenso informato nel registrare i dati del visitatore. La proposta di legge sulla privacy, la cui bozza è stata pubblicata nell’autunno del 2020, obbligherà i luoghi pubblici in Cina a informare i visitatori sulle tecnologie di riconoscimento facciale. Nessun perimetro legale è previsto, però, per l’autorità del governo e nessuna limitazione nel caso dell’applicazione della legge sulla Sicurezza nazionale.