Che cosa insegna il caso Verizon all'industria della comunicazione
La vendita della divisione media formata da Yahoo e Aol segna un punto di passaggio storico. È la dimostrazione che le sinergie tra reti e contenuti sono più difficili del previsto
L’annuncio pochi giorni della vendita da parte di Verizon della sua divisione media formata da Yahoo e Aol segna un punto di passaggio nelle dinamiche dell’industria della comunicazione. Le sinergie in cui aveva sperato Verizon 6 anni fa non si sono verificate e la cessione al fondo Apollo avviene a circa metà della cifra d’acquisto. Quasi lo stesso è avvenuto pochi mesi fa ad ATT che aveva speso quasi 200 miliardi nel merge con Liberty Media e Warner sperando di dominare il mercato della pay tv e che dopo molti errori e molte delusioni si è decisa a fare uno spin-off di Liberty media dove continua a detenere il 70 per cento, ma che valuta l’azienda meno di un terzo di quanto era stato investito nel 2015.
Certo ogni iniziativa ha la sua storia e nel caso di Verizon ha pesato il fatto che le due imprese cedute fossero delle vecchie glorie il cui modello di business e l’approccio tecnologico erano stati sconfitti dai nuovi protagonisti del web. Inoltre i piani hanno probabilmente sottovalutato le economie di scala nella vendita di spazi pubblicitari e il meccanismo di winner-take-all che caratterizza sia i mercati digitali che, in parte, quello dei contenuti e delle applicazioni.
Ma resta il fatto che le sinergie tra reti di telecomunicazioni e industrie dei contenuti sono risultate più difficili da raggiungere di quanto molti pensassero solo pochi anni fa. C’è stato un momento in cui la prospettiva dell’industria delle comunicazioni sembrava la via dei grandi accordi tra telecomunicazioni e produttori di contenuti. Da un lato la disponibilità di contenuti esclusivi avrebbe costituito un elemento di differenziazione nelle telecomunicazioni la cui redditività era schiacciata dalla concorrenza di prezzo e d’altra parte la taglia e la disponibilità economica dei grandi gestori tlc avrebbe ridotto i rischi e l’incertezza nel mercato dei contenuti sia attraverso la facilità di accesso ai capitali, sia attraverso la possibilità di garantire mercati più sicuri con i propri abbonati.
Il problema è che le culture organizzative e i modelli decisionali sono molto diversi. Le imprese di telecomunicazione sono abituate a fare grandi investimenti di lungo periodo la cui redditività a volte (come nel caso del rame) prosegue per decenni. Ogni decisione deve essere compatibile con le decisioni precedenti e ha grandi impatti di rete sull’insieme delle attività. Di conseguenza il processo decisionale è abbastanza lento e meditato, la competenza tecnica e l’esperienza sono valori fondanti, proprio per minimizzare il rischio di lungo periodo. Al contrario nel mondo pubblicitario e dei contenuti il processo decisionale è molto veloce, i rischi sono molto grossi ma di breve periodo, l’esperienza pesa, ma le competenze di tutti sono sempre in discussione: l’ultimo arrivato può sbaragliare manager stagionati se ha l’idea vincente.
Inoltre, almeno per il mercato dei contenuti, sono risultati vincenti modelli come quello delle piattaforme over the top che si separano dalla tecnologia sottostante della rete di distribuzione, al contrario di quanto faceva la pay-tv tradizionale, e che potenzialmente puntano all’accesso universale, fatto che mina alla radice quelle potenziali sinergie.
Oggi l’enfasi su quelle possibili sinergie è molto più ridotta e in tutto il mondo gli operatori di telecomunicazioni hanno da gestire due grandi ondate di investimenti: le reti in fibra ottica e il 5G nel mobile. Per cui tendono a focalizzarsi sul loro core business fatto da traiettorie tecnologiche di lungo periodo, costruzione di reti intelligenti e attenzione al controllo dei costi.
*Marco Gambaro, professore di Economia della comunicazione all’Università Statale di Milano