Distorsioni da rete

L'algoritmo e lo svilimento del principio di rappresentanza

"È così che scompare lo spazio condiviso dell'esperienza e del discorso, necessari per comprendere le discussioni su questioni importanti. È esattamente da questo che dipende la democrazia"

Micol Flammini

I social non sono il luogo della politica e non rispettano neppure i tempi necessari per un discorso costruttivo e per creare i compromessi utili a governare, vendono l'illusione che la propria volontà possa tradursi subito in decisione istituzionale. Un discorso di Wolfgang Schäuble

La politica ha i suoi luoghi e Wolfgang Schäuble, presidente del Bundestag, non è certo il primo a dire che non sono i social quelli consoni. Ma durante un discorso tenuto questa settimana alla conferenza dei presidenti degli stati membri dell’Ue e dei Parlamenti, l’ex ministro delle Finanze tedesco ha sottolineato un altro aspetto delle piattaforme  che va a detrimento della politica: l’esercizio istituzionale ha i suoi luoghi ma ha anche i suoi tempi e internet e i social, annullandoli, sviliscono il principio di rappresentanza e mettono in pericolo la democrazia. Le piattaforme esasperano, riducono, distorcono, i danni li abbiamo visti nel massimo della loro forza negli Stati Uniti, e dopo l’attacco al Campidoglio, l’ex presidente americano Donald Trump è stato bandito da Twitter, da Instagram e da Facebook. Gli ultimi due gli hanno lasciato la porta socchiusa e un comitato di saggi deciderà se impedire in modo definitivo a Trump di tornare o se riammetterlo. 

 

A scatenare l’attacco il sei gennaio fu la disinformazione promossa dall’ex capo della Casa Bianca, che sulle piattaforme aveva propagato la sua personalissima verità sulla “grande bugia” della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali del novembre scorso. Il suo richiamo all’azione, la sua fomentazione, dai social si tradussero  immediatamente nell’assalto e sappiamo come andò a finire. Anzi, probabilmente non è ancora finita. 
La disinformazione trumpiana aveva non soltanto fatto dei social il luogo istituzionale del presidente, ma aveva anche fatto passare l’idea che la politica potesse essere fatta con l’immediatezza di un tweet e di un post. Schäuble nel suo discorso non cita Trump, ma dice che i social hanno trasformato gli elettori in pubblico, che gli algoritmi radicalizzano bolle, limitano l’attenzione a una data sfera e polarizzano. “E’ così che scompare lo spazio condiviso dell’esperienza e del discorso, necessari per comprendere le discussioni su questioni importanti. E’ esattamente da questo che dipende la democrazia, in modo particolare in una società sempre più diversificata”. 

 

La logica del pubblico digitale non guarda le sfumature, trasforma le controversie in guerre, non conosce la pazienza, di cui invece hanno bisogno la politica e i suoi rappresentanti. Per sua natura l’algoritmo mortifica una delle qualità essenziali dei sistemi democratici: il compromesso, che è un’arte che ha bisogno di tempo. Per Schäuble, la rete ha generato un automatismo pericoloso: che la propria opinione e la propria volontà possano essere tradotte in modo immediato e diretto in realtà politica. E’ stato uno dei motori dell’assalto al Campidoglio, questo senso dell’immediatezza. “Questo non solo contraddice i princìpi fondamentali del processo decisionale democratico, ma porta inevitabilmente alla delusione. A lungo termine questo mette a repentaglio la legittimità dei rappresentanti eletti a prendere delle decisioni vincolanti per tutti”, ed è sulla  rappresentanza che si basano le nostre democrazie. E questa crisi  è amplificata dal fatto che le piattaforme promuovono la tentazione populista di equiparare la propria volontà a quella della maggioranza, una maggioranza ideale, cucita su misura dall’algoritmo. 

 

Chi può fermare tutto questo? Schäuble ha accusato aziende come Google e Facebook di non aver mai preso delle misure serie per aiutare la democrazia, per frenare l’odio, per fermare l’agitazione sociale: “Il loro modello di business si basa sull’enorme quantità di dati che raccolgono e che possono essere utilizzati commercialmente e politicamente, tra le altre cose per minare la fiducia nelle istituzioni democratiche e influenzare le elezioni attraverso una disinformazione mirata”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)