Foto: Markus Spiske

Ha stato l'algoritmo

Marco Bentivogli

L’opinione pubblica sensazionalista ha trasformato gli algoritmi in nemici del lavoro, ma l’innovazione tecnologica può essere un’alleata dei lavori del futuro. Quattro idee contro i nuovi slogan della decrescita

Quando leggete su un quotidiano una notizia del tipo: “Licenziato da un algoritmo”, “Dipendenti o schiavi di un algoritmo”, sappiate che chi scrive quelle frasi o non sa cosa sia un algoritmo o insegue il sensazionalismo, utile ad attirare l’attenzione ma non a capire i termini della questione. Quando a Parigi, all’ultimo congresso delle Confederazioni europee dei sindacati a cui partecipai, l’allora presidente del Parlamento europeo e allora candidato unanime della Spd Martin Schultz disse: “Dobbiamo combattere il capitalismo degli algoritmi”, sperai per il futuro della socialdemocrazia che certe cose non le si dicessero in patria. Troppo spesso dire cose ridicole o paurose fa conquistare visibilità e l’ultima del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, sugli “algoritmi che decidono gli orari di lavoro” fa capire che nella scelta tra il buonsenso, la competenza e il sensazionalismo, quest’ultimo assicura un maggiore rifornimento identitario agli ideologici. Partiamo dall’inizio, cosa è un algoritmo?

 

Il termine deriva dal latino algorithmus, mutuato dall’arabo, e proviene dal nome di un matematico arabo del IX secolo Mohammed ibn-Musa al-Khwarizmi (750-850 ca.), che faceva parte della corte reale di Baghdad, ritenuto fra i primi a teorizzare il concetto. Un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari (istruzioni) in un tempo ragionevole. Gli algoritmi sono generalmente programmi (software) con cui far funzionare le macchine e che scelgono attraverso modelli matematici e finalità che il committente gli assegna. Dietro il comportamento, le scelte, i passi di un algoritmo c’è chi gli ha assegnato queste finalità. Avere un nemico astratto è a quanto pare sempre più utile. L’algoritmo non licenzia mai nessuno, è l’azienda che indica al programmatore i parametri per selezionare le persone. E’ un termine sempre più utilizzato, ma molto poco conosciuto. La grande trasformazione digitale gli assegna il ruolo di motore del funzionamento: gli algoritmi sono ovunque, protagonisti delle nostre vite.

 

Come spiega Carlo Vercellis, responsabile scientifico dell’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence del Politecnico di Milano, l’algoritmo “scova correlazioni nascoste che l’occhio umano non può cogliere. Così si possono trovare nuovi fattori esplicativi e fare previsioni sul futuro”. A chi arriva a schierarsi “contro” gli algoritmi occorre ricordare che si tratta di applicazioni fondamentalmente neutre: operano a seconda degli input forniti dall’essere umano. Anche quando associati alle tecnologie di apprendimento automatico (del machine-learning), gli algoritmi hanno un perimetro di autonomia sempre definito dall’uomo, che è responsabile della decisione finale, si spera più ponderata. Anche questa è una forma di tecnofobia, un pensiero vittima di eccessiva ideologizzazione, a volte ben più grave da parte della classe dirigente che rivela una palese incompetenza.

 

Come ci ricorda l’ottimo Massimo Chiriatti: “Gli algoritmi, essendo privi di intenzioni coscienti, sono egoisti, e avranno un impatto sul mondo del lavoro, perché non sono passivi, ma attivi. Non dobbiamo spaventarci o illuderci, perché c’è incertezza su quello che può fare l’intelligenza artificiale, e soprattutto quello che può diventare. Qui si cerca di osservare il trend degli organismi del passato e immaginare le immediate evoluzioni per chiederci: ‘come cambia il lavoro con la società algoritmica?’”. Arrivare a stimolare la paura è quindi doppiamente irresponsabile, perché il nostro ruolo deve essere coinvolgere le persone nei cambiamenti e a questo fine serve diffusione di competenze e consapevolezza. La paura è un sentimento naturale che però paralizza le nostre capacità di reazione. E l’ibridazione con i dispositivi e le macchine pensanti non avverrà domani, è già avvenuta ieri. Possiamo introdurre alcune specifiche, parametri nella programmazione degli algoritmi e delle macchine pensanti. L’amico Padre Paolo Benanti ne ha individuate quattro che favoriscono la convivenza persone-algoritmo e macchine pensanti.

 

Intuizione

Quando due umani lavorano assieme, l’uno riesce ad anticipare e ad assecondare le azioni dell’altro intuendone le intenzioni. Questa competenza è alla base della duttilità che caratterizza la nostra specie: fin dai tempi antichi ha permesso all’uomo di organizzarsi. In un ambiente misto, anche le IA devono essere in grado di intuire cosa gli uomini vogliono fare, e devono assecondare le loro intenzioni cooperando: la macchina deve adattarsi all’uomo, non viceversa.

 

Intelligibilità

I robot funzionano comunemente secondo algoritmi di ottimizzazione: l’uso energetico dei loro servomotori, le traiettorie cinematiche e le velocità operative sono calcolate per essere il più possibile efficienti nel raggiungimento del loro scopo. Affinché l’uomo possa vivere assieme alla macchina, l’agire di quest’ultima dovrà essere intelligibile. L’obiettivo principale del robot non dev’essere l’ottimizzazione delle proprie azioni, bensì rendere il proprio agire comprensibile e intuibile per l’uomo.

 

Adattabilità

Un robot, attraverso la IA, si relaziona all’ambiente aggiustando il proprio comportamento. Lì dove uomo e macchina convivono, il robot deve essere in grado di adattarsi anche alla personalità dell’umano con cui coopera. L’homo sapiens è un essere emotivo; la macchina sapiens deve riconoscere e rispettare questa caratteristica unica e peculiare del suo partner di lavoro.

 

Adeguamento

Gli algoritmi di un robot ne determinano le linee di condotta. In un ambiente condiviso il robot deve saper adeguare i propri fini osservando la persona e comprendendo così qual è l’obiettivo pertinente in ogni specifica situazione. La macchina deve, in altri termini, acquisire una “umiltà artificiale” per assegnare una priorità operativa alle persone presenti, e non al raggiungimento di un fine predeterminato.

 

Nell’epoca delle IA questi quattro parametri tutelano la dignità della persona e vanno perciò garantiti. Questo obiettivo può essere raggiunto “sviluppando algoritmi di verifica indipendenti che sappiano certificare le capacità di intuizione, intelligibilità, adattabilità e adeguamento. Oppure è possibile ipotizzare enti terzi indipendenti, che attraverso la scrittura di algoritmi dedicati siano in grado di valutare l’idoneità delle IA alla convivenza con l’uomo. Solo rispettando queste indicazioni l’innovazione potrà essere guidata verso un autentico sviluppo umano”.

 

Su un terreno così concreto mettiamo al bando il fascino della sloganistica che non consente di regolare gli algoritmi. Non si contratta mai per legge ma per l’emersione di un bisogno che si ha la competenza di comprendere come premessa per provare a regolare. Per questo è stata preziosa l’opera di chi ha lavorato in questi anni per sviluppare le nuove competenze delle relazioni industriali. Come tutti i percorsi di rinnovamento, si tratta di processi faticosi quanto indispensabili. Vi sono due tempi: contrattare per accompagnare la transizione e poi partecipazione. Abbiamo visto che al termine di questa fase di transizione la produzione si configura come sartoriale, a misura delle esigenze particolareggiate e dettagliate del cliente. Anche la contrattazione, per essere efficace, deve assumere una dimensione di prossimità aziendale e territoriale, in modo da intercettare le caratteristiche delle singole imprese e le richieste dei lavoratori. Anche nei contratti nazionali dovranno riconfigurarsi cornici di garanzia che aiutino elaborazione e verifica delle nuove normative a livello aziendale e territoriale.

 

Le domande, quindi, sono due: dove contrattare e cosa contrattare. La risposta alla prima è semplice: sempre più in azienda e nel territorio. Alla seconda abbiamo già risposto: formazione, nuovi sistemi di inquadramento, orari e organizzazione del lavoro smart, innovazione, salari di produttività. E infine una contrattazione di ecosistema che metta insieme le tante piccole imprese secondo le diverse sfide di innovazione, in un contesto di rigenerazione del territorio e delle sue risorse. Con la crescita della propria professionalità, il lavoratore diventerà sempre più uno stakeholder indispensabile per l’organizzazione di cui fa parte. Aumenta l’ingaggio cognitivo, che non potrà più semplicemente esaurirsi nel miglioramento del prodotto o del processo produttivo, ma si declinerà anche in forme nuove di partecipazione del lavoratore alla gestione strategica d’impresa. Le fabbriche intelligenti senza le persone non funzionano. Nella visione della contrattazione 4.0 vanno in soffitta tanto l’idea antagonista quanto quella padronale di relazioni industriali, sono entrambe innocue o dannose.

 

Il cuore di un algoritmo è sempre la persona che lo progetta secondo le specifiche di chi gli fornisce le finalità che deve assolvere. Nella gran parte della politica vi è una troppo ridotta consapevolezza dei cambiamenti avvenuti e di quelli che ci attendono: qualcuno cerca di mettersi faticosamente al passo, altri per pigrizia ripiegano su ciò che gli consente di essere sufficientemente critico a prescindere.
Quando studiavo ho fatto anch’io il rider, che allora che si chiamava “pony express”: c’erano delle radio da portare sul motorino, non molto efficienti e scomode, e delle persone in sala radio che distribuivano le consegne da fare. Quelli che erano lì da più tempo ricevevano molte più consegne da fare. Ricordo che guadagnavamo 3.500 lire (miscela esclusa) tutto compreso, e la sera si versava qualche migliaio di lire per una sorta di assicurazione perché gli incidenti erano frequenti. Nessuno ne ha mai parlato. Ora ci sono i temibili algoritmi che si prestano meglio ad una narrazione più drammatica ed esasperata.
Per tutti gli altri che capiscono che le piattaforme interesseranno progressivamente tutto il lavoro, occorre poca retorica e molta competenza e capacità di proposta. La contrattazione deve, al più presto, occuparsi di proprietà dei dati, di algoritmi, di vecchie e nuove skill e del loro sviluppo e riconoscimento. Ma se non si toglie l’approccio ideologico, simbolico e innocuo, si contratterà su cose già risolte senza aggiungere nulla. Alla base c’è una grande distinzione tra chi crede che il digitale sarà una delle tante innovazioni e mode e chi ha capito che si tratta di una grande trasformazione che ha già cambiato i modelli di produzione, di organizzazione del lavoro, il senso del lavoro stesso il suo spazio, il tempo, il territorio e la vita.

 

Se questo è, dalla politica (e non solo) ci si aspetta qualcosa di più che espressioni di retorica morta, bensì iniziative. Si prenda ad esempio il Patto per la scuola digitale realizzato quasi due anni fa da Angela Merkel in Germania, che ha riformato tutta l’istruzione primaria proprio per valorizzare le competenze digitali. Per rendere esecutiva la legge è stata addirittura cambiata la Costituzione tedesca. In molti paesi del mondo dalle elementari si insegna a programmare in coding (la lingua delle app che utilizziamo). E così si insegna ai bambini un utilizzo più sapiente e creativo – e meno passivo e compulsivo – del proprio smartphone o pc. Il coding insegna a “dialogare” con un computer, uno smartphone, a impartire alla macchina comandi in modo semplice e intuitivo. L’obiettivo non è formare una generazione di informatici, ma educare i più piccoli al pensiero computazionale. E’ un’altra strada per stimolare la curiosità e la creatività attraverso quello che apparentemente può sembrare solo un gioco. Sono nuovi saperi che si integrano in modo forte con l’istruzione e la cultura umanistica.

 

Di più su questi argomenti: