Lo Zoom di Zuck
Facebook lancia “Horizon Workrooms”: strumento di lavoro o grande fratello?
L'ultima creatura di Mark Zuckerberg propone una soluzione per ripensare lo smart working attraverso avatar e un ambiente tridimensionale e immersivo. Dai dati alle interferenze tecnologiche nelle relazioni: rischi e prospettive
Due parti di Second Life, una parte di smart working, una spruzzata di The Sims, tre gocce di pandemia. Shakerare e servire. Questa pare la ricetta di Horizon Workrooms, l’ultima creatura di Mark Zuckerberg destinata, almeno nelle intenzioni, a farci ripensare la collaborazione a distanza. E così, mentre ci si interroga sullo smart working, Facebook propone una soluzione per ripensare i processi di collaborazione a distanza. Sistema basato sulla “mixed reality”, un mix composto da elementi reali (le voci dei partecipanti) ed elementi della realtà virtuale (gli ambienti tridimensionali e gli avatar con le sembianze degli utenti). Il tutto fruito grazie a occhiali che consentono la visione a tre dimensioni e ci proiettano in un universo nel quale i confini tra ciò che è virtuale e ciò che è reale sfumano, lasciando il posto a un continuum fluido nel quale fisico e digitale si incontrano, integrandosi. Horizon Workrooms vuole essere questo: un ambiente tridimensionale e immersivo che riproduce le funzioni di una sala riunioni nella quale i partecipanti, in video o tramite avatar, possono incontrarsi, condividere documenti, chiacchierare durante una pausa.
Non è la prima volta che Facebook prova a lanciarsi nel mondo dello smart working. Anni fa introdusse senza troppo successo “Workplace”. E sicuramente non è la prima volta che Zuckerberg guarda alla realtà virtuale come tassello importante del futuro di Facebook. Non a caso Horizon Workrooms è il primo elemento di quello che Zuckerberg, prendendo in prestito un termine dalla fantascienza cyberpunk, definisce metaverso. E se questo particolare metaverso parte da una base di quasi tre miliardi di utenti attivi è un metaverso al quale guardare con grande attenzione. Concettualmente, come spesso succede per le innovazioni di successo, non c’è molto di nuovo. Tecnologie mature che, combinate, sono in grado di offrire all’utente un’esperienza efficace. Quell’efficacia che, proprio per immaturità tecnologica, dei tempi o degli utenti, non è stato possibile garantire con altre soluzioni che pure si basavano su princìpi simili. Insomma: come sanno i bravi barman, un buon cocktail è sì negli ingredienti, ma anche e soprattutto nella capacità di miscelarli a dovere.
Ma quando a offrire un cocktail è un attore come Facebook è importante fare attenzione al tasso alcolemico e ricordarsi che l’alcool da dipendenza. La dipendenza, in questo caso, da una parte è quella degli utenti rispetto alle piattaforme; dall’altra quella delle piattaforme rispetto ai dati degli utenti. Dipendenza incrociata nella quale, però, il valore è sempre più spesso sbilanciato sul fronte delle piattaforme.
Ragionare in termini di sostenibilità digitale rispetto a una soluzione come quella proposta da Facebook, riflettere cioè sugli impatti sociali ed economici della tecnologia in un’ottica sostenibile, vuol dire ragionare su almeno due livelli: metodo e merito. Nel metodo: c’è da chiedersi quali dati cederemo, più o meno consapevolmente, con Horizon Workrooms. Non (solo) i dati che sappiamo di cedere, ma quelli che non ci rendiamo conto di fornire. Soluzioni come queste si basano su complessi algoritmi di intelligenza artificiale, necessari per intercettare espressioni e movimenti da riprodurre con i gemelli digitali degli utenti. Ma intercettare le espressioni vuol dire analizzare le emozioni, e farlo durante un meeting vuol dire avere un potere immenso sui partecipanti. Soprattutto se la piattaforma ne conosce le abitudini perché molti di quei partecipanti sono già utenti di Facebook. O di Whatsapp. O di Instagram.
Nel merito, è necessario riflettere su cosa succede alle relazioni quando la tecnologia si interpone come filtro percettivo nella costruzione della relazione. È qualcosa che succedere dai tempi dell’e-mail, beninteso, ma non si può scordare che guardare negli occhi il proprio interlocutore, seppure in videoconferenza, non è esattamente la stessa cosa che guardare gli occhi del suo avatar. Soprattutto se lo sguardo dell’avatar sarà il risultato di un’inferenza generata dall’intelligenza artificiale che ha interpretato le micro-espressioni del proprio interlocutore.
Insomma: il vero problema non è più (soltanto) quello di fornire troppi dati personali alle piattaforme, ma soprattutto non fornire loro quelle informazioni utili a sviluppare inferenze che consentano di conoscere e modellizzare i comportamenti degli utenti ben più di quanto gli utenti stessi si rendano conto di fare. Applicazioni come Horizon Workrooms, in tal senso, rischiano di essere non tanto strumenti per gestire videoconferenze in modo nuovo, quanto nuovi modi di intercettare e interpretare informazioni ad altissimo valore aggiunto. Per questo la trasparenza degli algoritmi e la consapevolezza degli utenti sono due tasselli imprescindibili per la sostenibilità digitale delle piattaforme.
Stefano Epifani, presidente Fondazione Digital Transformation Institute