Il floscio Bitcoin
La rivoluzione non pervenuta delle criptovalute
Avrebbero dovuto cambiare il mondo della finanza e far crollare il sistema delle banche. Ma finora sono risultate per lo più inutili. Un’indagine
Laszlo Hanyecz, un programmatore trentenne di Jacksonville, Florida, nel 2010 era un frequentatore piuttosto assiduo di Bitcoin Talk, un forum online popolare tra i primi appassionati di bitcoin. Bitcoin Talk era stato fondato proprio da Satoshi Nakamoto, cioè dalla persona che aveva letteralmente inventato i bitcoin un paio d’anni prima, e al tempo era un cenacolo di appassionati che, proprio come Nakamoto, volevano rivoluzionare l’economia mondiale e sostituire le valute controllate dalle Banche centrali con una nuova moneta, democratica e decentralizzata: il bitcoin. Laszlo Hanyecz era un sostenitore particolarmente entusiasta del bitcoin. Ne generava lui stesso, con un’operazione che in gergo si chiama “mining”, e voleva dimostrare che il bitcoin avrebbe fatto la rivoluzione. Come molti altri appassionati dei primi tempi, Hanyecz era convinto che il bitcoin avrebbe sostituito le altre monete e sarebbe diventato una valuta corrente, usata tutti i giorni da miliardi di persone. Così, il 18 maggio del 2010, scrisse su Bitcoin Talk un post intitolato: “Pizza for bitcoins?”. Nel post, chiedeva se qualcuno volesse scambiare due pizze formato large in cambio dei suoi bitcoin. Indicò anche i suoi condimenti preferiti: “Cipolle, peperoni, salsiccia, funghi, pomodori, salame, ecc.. solo roba standard, non strani condimenti di pesce o cose del genere”. A quel tempo, le pizzerie non accettavano i bitcoin come pagamento: nessuno li accettava, e quasi nessuno li conosceva. Ma Hanyecz voleva dimostrare che i bitcoin erano una moneta vera, con cui si poteva comprare cose: “Penso che sarebbe interessante poter dire che ho comprato della pizza in bitcoin”, scrisse.
Su Bitcoin Talk trovò qualcuno disposto. Qualche giorno dopo, il 22 maggio del 2010, Hanyecz scrisse trionfante sul forum che era riuscito a fare lo scambio, e allegò le foto come prova: due belle pizze giganti di Papa John’s, una catena simile a Domino’s, con condimenti invitanti. Per le due pizze aveva pagato un buon prezzo: 10 mila bitcoin, che oggi valgono circa 500 milioni di dollari. Nella comunità di chi si occupa di criptovalute, il 22 maggio è ancora ricordato come il “Bitcoin Pizza Day”: una festa goliardica in cui si commemora il giorno in cui due pizze large furono scambiate per 10 mila bitcoin, uno degli acquisti peggio oculati della storia. Ovviamente, Hanyecz al tempo non ne aveva idea: 10 mila bitcoin nel maggio del 2010 valevano 30 dollari, un prezzo accettabile per due pizze. Nel corso degli anni, Hanyecz è diventato una piccola celebrità, e ha dato diverse interviste, in cui ha sempre detto di non essersi pentito. Nel 2018, anzi, disse di essere orgoglioso di aver fatto parte della storia del bitcoin: “La gente sa della pizza, ed è una storia interessante perché si immedesima e dice: ‘Dio mio, hai speso tutti quei soldi!’”. Ma la storia di Hanyecz, negli anni, ha assunto un altro significato, che paradossalmente è l’esatto contrario di quello che voleva dimostrare inizialmente: per lui, comprare quelle pizze significava dimostrare che con i bitcoin ci si può comprare cose. Il fatto che le abbia comprate per quelli che oggi sono 500 milioni di dollari mostra che l’obiettivo di Hanyecz – e del fondatore di bitcoin, Satoshi Nakamoto – è fallito.
Al momento della creazione del bitcoin, nel 2008, Satoshi Nakamoto – che è uno pseudonimo – pubblicò un manifesto di nove pagine in cui spiegava il funzionamento della nuova moneta virtuale e in cui, soprattutto, ne delineava l’ideologia. Il New York Times avrebbe descritto il manifesto di Nakamoto come “profondamente politico”. La crisi globale era appena scoppiata, e la colpa era delle banche e delle grandi istituzioni finanziarie. I governi, anziché aiutare chi era in difficoltà, spendevano miliardi per salvare le stesse banche che avevano provocato la crisi: di loro non ci si poteva fidare. “Il problema alla base delle valute convenzionali è che c’è bisogno di fiducia per farle funzionare. Una banca centrale deve essere fidata per non provocare svalutazione della valuta, ma la storia delle valute è piena di tradimenti di questa fiducia”, scrisse Nakamoto. Quando, nel gennaio del 2009, Nakamoto generò i primi 50 bitcoin, all’interno del codice inserì in maniera indelebile un titolo del Times di quei giorni: “Il cancelliere dello Scacchiere sta per approvare un secondo bailout per le banche”. Era abbastanza chiaro con chi ce l’avesse.
Il bitcoin avrebbe dovuto risolvere il problema della fiducia – e, di conseguenza, avrebbe dovuto eliminare dal grande gioco finanziario tutti gli attori, come le banche e i governi, che quella fiducia non se la meritavano. Lo avrebbe fatto attraverso un sistema che anzitutto era decentralizzato: a validare le transazioni non sarebbe stata più una banca, ma una catena (la blockchain) in cui le transazioni di denaro sono validate da tutti i partecipanti. Di fatto, Nakamoto voleva separare il denaro dallo stato. L’idea era rivoluzionaria, e ben presto il bitcoin attirò anarchici, libertari e utopisti, che accarezzarono il sogno di creare una finanza democratica, trasparente e soprattutto decentralizzata. I fan del bitcoin hanno molte inclinazioni: ci sono i cripto-anarchici, gli insurrezionalisti, gli speculatori, ma tutti sono attratti da un concetto fondamentale: decentralizzare la finanza, far fuori le banche. A questo pensiero, gli occhi di certi tecno-utopisti come il fondatore di Twitter Jack Dorsey ancora brillano. Nei primi anni, disse uno dei sostenitori del bitcoin al New York Times, “tutti quelli che furono coinvolti nelle criptovalute lo fecero per ragioni filosofiche”.
Al bitcoin presto si affiancò una miriade di altre criptovalute: alcune più evolute, come Ethereum, altre ridicole e create per scherzo, come i celebri Dogecoin. Ben presto, però, si è capito che il sogno di fondare una nuova economia decentralizzata sulle criptovalute era irrealizzabile. Le ragioni tecniche sono abbastanza complicate e tediose, ma la questione su cui ormai sono concordi tutti gli economisti, gli esperti e persino gli appassionati è che è impossibile usare le criptovalute come valuta corrente. In altre parole, è impossibile usare le criptovalute per comprare cose, come per esempio due pizze. Questo perché le criptovalute sono eccezionalmente inefficienti (con il bitcoin è possibile validare circa 5 transazioni al secondo; Visa ne valida 24 mila), creano un’abnorme quantità di emissioni per essere prodotte e sono particolarmente volatili: è difficile fare la spesa al supermercato con una valuta che un giorno vale 50 mila dollari e tre mesi dopo ne vale 15 mila.
Tutto ciò è ben noto da anni a chiunque si occupi di criptovalute, ed è per questo che ormai da tempo l’interesse degli entusiasti ha cercato nuove direzioni. Ma dopo che il sogno di creare un’economia decentralizzata e di sostituire le valute correnti era in gran parte crollato, trovare altri utilizzi per le criptovalute si è dimostrato sempre più difficile. Le criptovalute non possono essere valuta corrente, e questo l’abbiamo visto. Non possono essere commodity, come il petrolio o il grano, perché al contrario di petrolio e grano non hanno nessun utilizzo nel mondo reale. Non possono essere valori mobiliari, come per esempio titoli di stato o azioni di Borsa, perché non costituiscono un investimento in qualcosa di produttivo: se compro un’azione di Microsoft, è perché Microsoft produce valore; il bitcoin invece non produce niente.
Le criptovalute hanno sempre generato molto scetticismo tra gli economisti della vecchia guardia, ma da qualche tempo la corrente dei cosiddetti “criptoscettici” ha acquisito sempre più forza e solidità. Uno dei suoi esponenti è Stephen Diehl, un programmatore britannico il cui blog ha ottenuto da tempo un certo seguito e che di recente ha scritto che il problema della blockchain, cioè la tecnologia su cui si basano tutte le criptovalute, è una “sostanziale inutilità tecnica”. Di fatto, scrive Diehl, se il bitcoin e le criptovalute non sono riusciti a fare la rivoluzione della finanza mondiale è perché forse non sono tutta questa grande idea. La blockchain è eccezionalmente inefficiente, funziona a malapena, e tutte le volte che si prova a confrontare il suo modello decentralizzato con il modello centralizzato tradizionale il paragone è perdente. Di recente Diehl ha scritto: “Ogni applicazione che potrebbe essere fatta su una blockchain può essere fatta meglio su un database centralizzato. Tranne il crimine”. Messa così è piuttosto brutale, ma non è molto lontana dalla realtà che stiamo vivendo. Oggi, a 12 anni dall’invenzione di Satoshi Nakamoto, i principali utilizzi delle criptovalute sono il crimine e la speculazione. La rivoluzione non è pervenuta.
Sul crimine sorvoliamo: è noto che le criptovalute sono molto amate dai criminali informatici per chiedere i pagamenti di riscatti, a causa della loro presunta anonimità (che poi non è così inespugnabile). L’altro tema è più interessante, e riguarda la speculazione. Dopo aver capito che non potevano essere spesi, i sostenitori di bitcoin e delle altre criptovalute hanno deciso che in realtà vanno accumulati. È per questo che il valore del bitcoin è aumentato così tanto negli ultimi anni, passando da pochi centesimi a 50 mila euro: le criptovalute vengono comprate per essere conservate, magari come strumento per evitare l’inflazione, con l’aspettativa che aumentino di valore nel tempo. È per questo che la storia di Hanyecz e delle sue due pizze oggi fa tanto ridere: se avesse tradito lo spirito originario del bitcoin come hanno fatto tutti gli altri, e anziché usarlo nell’economia reale lo avesse conservato come una forma di speculazione digitale, oggi Hanyecz sarebbe ricchissimo.
Secondo molti critici però questa speculazione digitale ha un altro problema: semplificando molto, si può dire che le criptovalute non hanno le caratteristiche necessarie per essere usate come strumenti monetari e al tempo stesso non hanno un valore intrinseco. Chi investe o specula in Borsa, sta comunque comprando quote di aziende che hanno un valore intrinseco; chi investe o specula sulle commodity, sta comunque comprando qualcosa che ha un valore di mercato, che si mangia o viene bruciata per produrre energia. Perfino l’oro è in fondo una materia prima, che ha ampi utilizzi industriali. Ma le criptovalute non sono niente di tutto questo, ed è per questo che molti economisti sostengono che, una volta fallito il progetto di usarle come valuta, l’idea di usarle come asset è poco credibile. Secondo il criptoscettico Diehl, il paragone più plausibile che si può fare per le criptovalute è quello delle opere d’arte, il cui valore è sfuggevole perché non ha nessuna base economica. I bitcoin non hanno fondamentali economici, e di fatto continuano a essere comprati perché si pensa che alla fine aumenteranno di valore – vengono comprati sulla fiducia, cioè per la ragione diametralmente opposta a quella che spinse Nakamoto a inventarli. E, come scrisse Nakamoto stesso, molte volte nella storia la fiducia è stata violata.
Questo non significa necessariamente che le criptovalute siano una bolla – anche se sono in molti a pensarlo. Le criptovalute hanno già creato delle fortune ingenti, e continueranno a farlo. L’indotto del mining è un business concreto, che sta generando profitti. Ma al tempo stesso, senza niente che le ancori alla realtà, le criptovalute vanno molto vicino ad assomigliare a una bolla: ormai da anni la ragione principale che ne sostiene il valore è la convinzione che qualcun altro continuerà a comprare altri bitcoin a prezzi più alti di quelli a cui li hai comprati tu.
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