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Gli smartphone non sono sostituti dell'intelligenza. Gli educatori lo sanno?

Giovanni Belardelli

Bisogna prendere sul serio le trasformazioni cognitive dovute all'uso prolungato di internet.  Aprendo la scuola alla tecnologia, ma preservando allo stesso tempo anche strumenti di trasmissione e organizzazione del pensiero che la nostra società rischia di perdere

L’impatto negativo della Dad su tanti studenti ha sicuramente raffreddato certi entusiasmi pre pandemia sulle virtù salvifiche della didattica digitale. Non ci ha portato, però, a riflettere davvero sulle conseguenze profonde che, Dad a parte, l’informatica sta avendo sui nativi digitali; cioè sui giovani e giovanissimi che hanno imparato a usare lo smartphone o il tablet dei genitori prima di conoscere qualche lettera dell’alfabeto. Tendiamo a pensare che in fondo, a parte l’esposizione ai device elettronici sicuramente eccessiva, i nativi digitali usino internet, smartphone e computer più o meno come i loro genitori o come i loro fratelli e sorelle più grandi. Ma non è così. C’è a esempio nei più giovani una particolare difficoltà di attenzione e concentrazione nello studio legata all’uso degli strumenti informatici (di solito vari contemporaneamente), come hanno messo in luce ormai diverse ricerche. Una di esse riferisce questo esperimento: alcuni studenti ai quali era stato chiesto di concentrarsi su un testo per un quarto d’ora non riuscivano a farlo per più di 3/5 minuti e si spostavano su altre schermate del computer o dello smartphone. Il libro che riporta questo esperimento e altri analoghi – scritto da due americani, Adam Gazzaley e Larry D. Rosen – si intitola non a caso Distracted Mind (Franco Angeli editore). La capacità di mantenere l’attenzione per più di pochissimi minuti, scrivono gli autori (un neurologo e uno psicologo), è messa in crisi dal fatto che ormai viviamo “in un mondo completamente multisensoriale che seduce tutti i nostri sensi visivi, auditivi, tattili. […] I nostri device vibrano, tremano, tintinnano, emettono rollii e la nostra attenzione viene catturata”.


Tanti zelatori della scuola digitale sembrano ignorare che l’utilizzazione continua, ininterrotta dei dispositivi elettronici sta probabilmente determinando nei più giovani delle trasformazioni antropologico-cognitive sulle quali dovremmo riflettere. Si prenda l’uso di Internet. Rappresenta ovviamente uno straordinario strumento di studio e di lavoro; ma da parte dei più giovani (e non solo da parte loro, per la verità) è spesso considerata una sorta di inesauribile “memoria esterna”, alla quale ricorrere liberando così spazio nel nostro cervello. Ma la memoria umana non assomiglia affatto a un disco fisso, non si riempie mai ed è capace di un’espansione virtualmente infinita. E’ inoltre sbagliata l’idea che, visto che in rete si trova tutto, sia inutile sforzarsi per imparare questo e quello (cioè le deprecate nozioni, da tempo malvistissime da parte dei pedagoghi ministeriali). Sappiamo infatti che l’acquisizione attiva di conoscenze attraverso la memoria personale è il risultato di un lavoro che stimola processi di ragionamento e selezione, e rende quelle conoscenze davvero nostre. “Internet ci rende stupidi?”, domandava provocatoriamente Nicholas Carr in un libro di qualche anno fa. Un uso passivo come quello che ho descritto rischia di autorizzare una risposta positiva.


Se vogliamo riflettere seriamente sulle trasformazioni cognitive – cioè sul modo stesso di organizzare il pensiero e perfino di percepire il mondo – indotte dalla rete, soprattutto per tanti giovani e giovanissimi che vivono quasi in simbiosi con lo smartphone, dobbiamo considerare anche l’appannarsi della dimensione del tempo storico. Un insegnante, Fabrizio Polacco, ha ricordato di recente come la maggior parte dei suoi alunni non sappia collocare gli anni nei secoli e come talvolta ignori perfino quanti secoli contenga un millennio: “ne ricordo – scrive – ancora uno, impagabile, che alzò la mano e rispose sicuro: otto!” (Paradoxa, 2020/4). Lo scorrere dei secoli, la differenza tra le varie epoche sono in effetti qualche cosa di difficile da comprendere per chi si trova a sperimentare mediante la rete la coesistenza, la presenza per così dire contemporanea, di tutte le epoche e, attraverso i social network, viene risucchiato nel vortice di un eterno presente


La digitalizzazione dell’insegnamento rischia di comportare la perdita – nota a chiunque insegni nelle scuole o all’università – della stessa capacità di scrivere a mano, magari nella convinzione che si tratti di qualcosa di superato e inutile. Sarebbe assurdo penalizzare la scrittura con strumenti elettronici ovviamente, come lo sarebbe stato altrettanto immaginare un secolo e più fa di tornare alle carrozze a cavalli. Ma bisogna anche sapere che la scrittura manuale non è solo una modalità tecnica: a differenza di quando digitiamo sulla tastiera di un computer o di uno smartphone, mette in relazione aree diverse del cervello, ci stimola a riflettere, ci aiuta a organizzare il pensiero. E’ un fatto noto ai neuroscienziati, ma non evidentemente ai vertici del nostro ministero dell’Istruzione. Veniamo così al punctum dolens. All’inconsapevolezza diffusa del fatto che la scuola non dovrebbe respingere le nuove tecnologie, ovvio; ma dovrebbe preservare anche strumenti di trasmissione e organizzazione del pensiero che la nostra società rischia di perdere. Se la scuola non ci insegna a fare una ricerca senza scaricarla bell’e pronta da Internet, se non ci costringe (sì, costringe) a scrivere a mano, se non ci educa a leggere un testo complesso (per più dei 3/5 minuti di cui si diceva prima) chi mai potrà farlo? Nessuno temo. O meglio, lo faranno come al solito le famiglie di condizione socioculturale più elevata con i loro figli. E che tutti gli altri si arrangino con il copia-e-incolla su Internet.

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