Bello scartabellare indici, repertori e motori di ricerca. Ma può bastare?
Un libro di Dennis Duncan e la nostra idea di cultura, storia, società
Non sono né un esperto frequentatore di manoscritti, né un disinvolto utente di Google. Sono un homo legens del Novecento che si divertiva con i rumorosi tasti delle macchine da scrivere e ora usa biro e fogli a righe osservando l’influenza dell’umore sulla grafia. Ho perciò tutto da imparare dal libro di Dennis Duncan Indice, Storia dell’. Dai manoscritti a Google, l’avventurosa storia di come abbiamo imparato a orientarci nel sapere (UTET, pp. 333, euro 28). Ma mi dico subito che la storia raccontata da Duncan sarà anche avventurosa (lo è), eppure sul suo esito attuale non sono affatto ottimista, cosa che non riesco a trasmettere quasi a nessuno.
Mi piacciono le enciclopedie, i manuali, le antologie, i dizionari: sono a loro modo libri avventurosi. Non tutti i libri vanno letti come Guerra e pace, i Canti di Leopardi e i Diari di Kafka. Quella che oggi chiamiamo manualistica, anche se non è sempre stata ipertrofica come quella di oggi, è sempre esistita. Anche i più profondi sapienti antichi erano spesso in possesso di un sapere enciclopedico che andava dalla fisiologia del corpo umano (il microcosmo) fino alle piante, alle pietre, agli animali, alle stelle in cielo (il macrocosmo). Il sapere è sempre poliedrico: è osservazione, catalogazione, esperienza personale, riflessione, immaginazione, saggezza. Esistono perciò libri da leggere, che contengono esperienza e la cui lettura è a sua volta un’esperienza per il lettore. Ma esistono anche libri da usare, da consultare, in cui cercare informazioni e trovarle il più comodamente e velocemente possibile.
Di che cosa parla il libro di Duncan? Parla di indici analitici e tematici, cioè di strumenti e metodi al servizio non di chi legge o leggerà i libri, ma di chi non ha il tempo di farlo e ha fretta di trovare in essi solo quello che gli serve. Avere tempo per leggere e come si legge: è soprattutto questo che mi interessa e che non ha direttamente a che fare con l’oggetto di studio di Duncan, scrittore, docente e membro della Royal Historical Society. E’ a questo punto che mi chiedo che cos’è la storia nel suo libro di storia. Lo storicismo teleologico, che concepisce la storia come un itinerario progressivo in direzione di un fine (in genere positivo), sembra tramontato. Oggi sono i mezzi a decidere il fine, anche se non ci hanno ancora messo al corrente di quale fine sarà. Dovremo immaginarlo. Il libro di Duncan non entra in questa spinosa questione, eppure esprime con sufficiente chiarezza la sua adesione alla vulgata secondo la quale le cose storicamente cambiano rimanendo sostanzialmente le stesse: cioè niente paura, dato che tecnicamente non possono che migliorare rendendoci la vita più comoda e l’agire più efficiente.
Mi fermo alle pagine 17-19 dell’introduzione, le sole che contengano un ragionamento in proposito, dove si legge: “L’ubiquità dei motori di ricerca ha dato luogo a un senso di ansia diffusa: la ricerca è diventata un sistema abituale, una modalità di lettura e di apprendimento che soppiantando quelle del passato, portano con sé tutta una serie di catastrofiche conseguenze. A quanto pare starebbe modificando la nostra mente, peggiorando la nostra facoltà di concentrazione ed erodendo la nostra capacità di memorizzare. Lo scrittore Will Self ha dichiarato che il vero romanzo è morto perché non avremmo più la pazienza necessaria per leggerlo. Viviamo nell’Epoca della Distrazione, ed è colpa dei motori di ricerca. Qualche anno fa, un articolo dell’Atlantic che ebbe molta risonanza formulava l’interrogativo: ‘Google ci sta facendo diventare stupidi?’, e sosteneva, con convinzione, che fosse proprio così”. L’autore di cui si tace il nome è Nicholas Carr, poi piuttosto noto per il suo libro Is Google making us stupid? What Internet is doing to our brains.
Duncan formula il problema solo per cancellarlo. Si affretta a dire che “si tratta solo della manifestazione più recente di una vecchia malattia (…) Galileo si lagnava dei filosofi da salotto che ‘per acquistar le notizie de gli effetti di natura, e’ non vadano su barche o intorno a balestre e artiglierie, ma si ritirano in studio a scartabellar gli indici e i repertori per trovar se Aristotile ne ha detto niente’”.
Mi sembra che la conoscenza come esperienza, da cui è nata la scienza moderna, non tocchi la sensibilità di Duncan, benché sia nato nella patria dell’empirismo. La sua conclusione è questa: “Non esiste un ideale platonico di lettura (…) ogni cambiamento nello scenario sociale e tecnologico ha prodotto un’evoluzione nel significato del concetto di lettura. Non evolvere come lettori (…) è assurdo quanto lamentarsi che una farfalla non sia abbastanza bella”.
Bel colpo. Non so se le farfalle di oggi siano belle come quelle di un secolo fa, mi dicono però che la biodiversità è in declino, che i pesci si ammalano e che certe mutazioni dell’ambiente fanno impazzire certi animali spingendoli al suicidio. La storia secondo Duncan è evoluzione nel senso neutro o positivo, mai negativo, nonostante diverse prove in contrario. Chi osa trovare che qualcosa peggiora, sarebbe uno che vuole cambiare le ali alle farfalle. Forse cambieremo anche quelle, in nome dell’evoluzione progressiva, come siamo riusciti a imbruttire la bellezza con l’intenzione di renderla, senza limiti, più bella e per sempre.
Qui gli indici analitici e la loro utilità non c’entrano. Ma se si leggono in prevalenza gli indici e le informazioni in rete, se i libri li facciamo leggere in prevalenza a una macchina, se facciamo esperienza del mondo quasi solo via display, non sarebbe male chiedersi, con Nicholas Carr, che cosa Internet sta facendo ai nostri cervelli e che differenza c’è fra il cervello di Leonardo e quello di Steve Jobs. La scienza e la tecnica ci fanno comodo per vivere e sopravvivere più a lungo, con meno sofferenze e fatica. Per fare che cosa con i nostri cervelli? Tutta la nostra idea di cultura, società, storia e umanità dipende da questo interrogativo.