La terza vita, supereuropea e molto pop, del QR code
Da una fabbrica giapponese ai social ai nostri green pass, la storia umile di una tecnologia salvifica
Nessuno ci avrebbe creduto, anche solo cinque anni fa. Una pandemia globale costringe il mondo intero a sacrifici, isolamento, lockdown e vaccinazioni di massa, aprendo la strada a uno strumento sottovalutato, che finisce per salvare – nei propri limiti – la situazione. Un farmaco rivoluzionario? Una nuova tecnologia futuristica? Non proprio, lo strumento in questione è il QR code. Questo vecchio arnese digitale, sospeso tra la fantascienza e la pixel art fatta male, ha una storia lunga e strana, ma soprattutto umile. Il QR code non voleva entrare a far parte delle vite di tutti, dopotutto, è stato un piacevole incidente, nato dai limiti del codice a barre, un sistema rivoluzionario ma capace di contenere una quantità ristretta di informazioni.
Prima di diventare la colonna portate del certificato Covid digitale dell’Unione europea e di evocare nei nostri dispositivi menù digitali o offerte commerciali o link utili in genere, il sistema nacque come soluzione a un problema pratico. Industriale. Gli operai della Toyota erano costretti a scannerizzare tanti, troppi, codici a barre e finirono per chiedere un metodo più semplice e veloce. Considerando l’importanza dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche Toyota, era una bella grana a cui si trovò una soluzione grazie a una partita di Go. Go è un antico gioco da tavolo cinese (noto anche per essere stato uno degli ultimi a essere “insegnato” a un’intelligenza artificiale, con ottimi risultati). Fu Masahiro Hara, dipendente di un’azienda di sistemi integrati chiamata Denso Wave, a notare come le pedine del Go – dei ciottoli bianchi e neri – sembravano creare delle figure particolari sul tavolo da gioco. Una rete di punti complessa e fitta all’interno della quale si potevano incastonare informazioni, senza usare le linee e i numeri dei tradizionali codici a barre. Più precisamente, il codice che ne sarebbe nato avrebbe contenuto duecento volte il numero di informazioni dei suoi predecessori.
Era nato Quick Response, o QR code, che dal 1994 è entrato nelle fabbriche e nei centri di logistica di mezzo mondo, permettendo di leggere molte informazioni in pochi secondi. All’epoca lo si faceva con un apposito scanner ma la diffusione degli smartphone ha permesso a chiunque di leggere questi codici, aprendo la strada al gesto che ormai tutti conosciamo. Se queste umili, utilitaristiche, origini sembrano cozzare con la quotidianità pandemica dei nostri giorni, è perché questo contrasto esiste. Chi avrebbe previsto che l’Ue si dotasse di un pass di guarigione o vaccinazione usando un aggeggio nato nelle fabbriche giapponesi anni Novanta? Ma soprattutto, che gli Stati Uniti optassero – in modo discutibile – per un certificato di carta, senza codici e perlopiù troppo grande per stare in un portafoglio?
Nessuno l’avrebbe previsto, ovviamente. E’ per questo che vale la pena ripercorrere tutti i passi che hanno portato il QR code dov’è oggi, la svolta che ha permesso il spillover della tecnologia dalle fabbriche alla vita di tutti noi. La risposta, come anticipato, sta tutta nello smartphone. Nei primi modelli bisognava scaricare un’app apposita per scannerizzare questi codici e quindi a farlo era una sparuta minoranza che doveva o voleva per qualche motivo leggere i QR code. Con il tempo sempre più dispositivi – compreso lo sgangherato Android di chi scrive – sono diventati in grado di leggere questi codici senza applicazioni apposite.
L’epifania non ha colpito le istituzioni all’improvviso, ma gradualmente. Nel dicembre 2020 il National Center for Biotechnology Information statunitense pubblicava un paper in cui si definivano questi codici come una “cura per l’overload informativo da Covid-19”, arrivando a una proposta che all’epoca doveva sembrare ancora azzardata. Spiegando come fosse stato necessario dare continui aggiornamenti ai cittadini riguardo la pandemia, lo studio proponeva di usare “adesivi con QR code piazzati strategicamente in tutto il pronto soccorso, con link a una semplice sito con gli aggiornamenti più recenti e rilevanti”. Facile stupirsi della scoperta di questa particolare acqua calda – ma si sa, la pandemia ha piegato il tempo, rendendo le distanze relative, quantistiche. In questo caso, un biennio pesa come mezzo secolo.
In questa archeologia del Covid-19 si trovano altri reperti interessanti, come il tentativo iniziale di utilizzare questi codici per l’ormai famigerato tracciamento. Prima che le varianti Delta e Omicron rendessero pressoché impossibile ogni forma di tracking, per gran parte del 2020 questo fu uno degli argomenti più caldi e controversi, dal caso di Vo’ Euganeo al dramma dei mesi successivi. Fu l’era di Immuni et similia, tutte app che si fondavano sul bluetooth (altro residuato tecnologico tornato utile in tempi di pandemia). Per un po’, però, si pensò di affiancare il bluetooth proprio ai QR code, facendo scannerizzare un codice agli utenti prima di entrare in un determinato luogo. “Questo permette di avere informazioni sulla locazione delle persone – hanno spiegato in uno studio i ricercatori Andrew Tzer-Yeu Chen e Kimberly Widia Thio – sebbene a un livello meno granulare rispetto al Gps”. Tra le azioni che usano o hanno usato questo sistema – in parallelo con altre forme di tracciamento e campagne di vaccinazione – ci sono la Nuova Zelanda (fino al dicembre 2020 quando l’app ha cominciato a usare il bluetooth), Singapore (in parallelo con il bluetooth), l’Australia e il Regno Unito. Chi si rivede, il Commonwealth!
Alla luce di tutto questo, l’approccio europeo sembrerebbe figlio di un fallimento, quello di non essere riusciti a includere il QR code nel tracciamento, cosa che avrebbe riempito i bar di tutta Italia con un codice da scannerizzare per registrare i propri movimenti. E’ però ovvio che tale sistema – oltre che poco preciso, come detto – sia controverso soprattutto sul versante della privacy. Molto meglio l’approccio contrario, quello che ormai conosciamo tutti: è il cittadino ad avere un QR code con le sue informazioni vaccinali e il gestore dell’attività deve controllarlo. Insomma, niente Gps o “check-in” geolocalizzati, che avrebbero aperto la “fase Foursquare” della pandemia.
Prima di diventare la colonna portate del certificato Covid digitale dell’Unione europea e di evocare nei nostri dispositivi menù digitali o offerte commerciali o link utili in genere, il sistema nacque come soluzione a un problema pratico
Il primo leader mondiale a proporre una specie di certificato di guarigione fu il presidente cinese Xi Jinping durante il G20 del novembre 2020, sottolineando come un sistema basato sul QR code potesse “liberare” il settore dei viaggi, e non solo. Dalla Cina al Mediterraneo, l’idea di un pass vaccinale ha messo poi radici in Israele, paese che fu tra i primi a istituire un certificato di questo tipo (chiamato “green pass”, nome che avrebbe poi avuto successo dalle nostre parti). Una proposta simile non poteva che venire da Pechino, non tanto per motivi geopolitici ma puramente tecnologici: è infatti in Cina che è iniziata la seconda vita “pop” dei QR code.
Per capirne il perché, però, dobbiamo partire da un prodotto americano, Snapchat, un social network molto usato tra i più giovani. Snap – com’è chiamato oggi – è uno degli eroi meno celebrati della rivoluzione social, pur avendo di fatto inventato il formato delle stories – poi riproposto da Instagram e più o meno da tutti i social network a seguire – e una serie di innovazioni interessanti. Tra queste, una novità presentata nel 2017 con cui l’app poteva produrre uno “Snapcode”, ovvero un QR Code a forma di fantasmino (il logo dell’azienda). A un utente bastava mostrare questo codice a un altro utente per permettere a quest’ultimo di aprire la sua pagina Snapchat, come fosse un biglietto da visita fotografabile. Da allora l’uso di questo tipo di codici è dilagato: Spotify li utilizza da tempo per “linkare” una determinata canzone, contribuendo a rendere mondano l’uso di QR code.
Tutto questo, però, era cominciato in Cina. E non su ordine di Xi Jinping, ma in un’app poco conosciuta in occidente, WeChat. WeChat è un prodotto difficile da definire: è una chat, certo, una specie di Whatsapp cinese; ma è anche altro, molto altro. Fa parte di una categoria di prodotti chiamati “super app” per via della loro duttilità: con WeChat, infatti, si può ordinare cibo per asporto. O chiamare un taxi. O pagare una multa. O avere un prestito con cui comprarsi un’auto. Il gigante alle sue spalle, Tencent, è un colosso dagli stretti legami con il Partito comunista cinese i cui affari e investimenti vanno dai social network a Epic Games (società sviluppatrice del videogioco Fortnite). Più che un social network di successo WeChat è oggi un elemento essenziale della vita cinese, e ben prima che la pandemia sconvolgesse il mondo. A rendere l’app un passepartout ci hanno pensato i “mini-programmes”, dei programmini esterni, come delle app che si poggiano sulla super app permettendo di integrare innumerevoli servizi – e soprattutto di rendere le carte di credito obsolete. In Cina, infatti, si fa tutto via cellulare. I numeri parlano chiaro: secondo fonti citate dal giornalista Yunhan Fang, “nel 2018 l’80 per cento dei consumatori cinesi usava pagamenti mobili” e quindi i QR code. Negli Stati Uniti, in quello stesso anno, era il 10 per cento. Il motivo? La Cina “ha saltato la fase delle carte di pagamento passando direttamente ai pagamenti mobile”.
I QR code venivano quindi da un paio d’anni di forte interessamento da parte dei giganti tecnologici occidentali, che inseguono il modello delle super app cinesi e quindi vedono in questi codici un elemento fondamentale per il loro futuro. Nel frattempo, la pandemia stava cambiando il nostro rapporto con la tecnologia, accelerando processi in corso da dieci anni. Per quanto riguarda l’Europa, tutto si è deciso tra il marzo e il giugno 2021, quando la Commissione europea ha proposto di introdurre un pass a livello europeo aprendo la strada al “Certificato Covid digitale dell’Ue” – nome ufficiale del green pass – che è nato grazie anche ai continui sviluppi del QR code nei servizi di massa. Quelle che fino a dieci anni fa erano ancora delle strane immagini da smanettoni oggi sono – ed è ancora una volta incredibile a dirsi – cool. O quasi.
E’ difficile quantificare l’impatto politico del certificato europeo. Forse siamo ancora troppo vicini all’esplosione del Covid per poter quantificarne le conseguenze (a quello ci penseranno gli storici). Ma un QR code che permette agli europei di muoversi in tutta l’Unione (e non solo), condividendo dati tra i diversi membri, rimane un passo incredibile. Certo, restano le polemiche sulla privacy, i dubbi tecnici e politici e le inevitabili teorie cospiratorie ma il successo di una misura digitale su scala continentale, realizzata peraltro in piena emergenza, è difficile da ignorare. E ha permesso alla presidente della Commissione europea Ursula von del Leyen di festeggiare poco prima dello scorso Natale: “The EU Covid Certificate is a big success”.
In un’intervista con il Guardian del dicembre del 2020 Masahiro Hara è sembrato felice delle infinite applicazioni della sua invenzione. “Non avevamo mai pensato che sarebbe stato usato in questo modo”. E ancora: “Sono davvero felice che sia utilizzato per garantire maggiore sicurezza alle persone”. All’epoca Hara veniva intervistato perché le sue creazioni avevano fatto capolino nei menù di mezzo mondo, per via del timore dei contagi. Da allora non hanno più smesso di rendersi utili. Trent’anni dopo aver cambiato la vita degli operai delle fabbriche di tutto il mondo, il QR code si appresta a una sua seconda, anzi, terza giovinezza, dopo aver cambiato i social network e la nostra quotidianità. E sembra aver appena cominciato.