la festa dell'innovazione
Colao: "L'Italia ha già un'infrastruttura digitale: ora serve cambiare i processi antiquati e la mentalità"
L'ex ad di Vodafone presenta alla Festa dell'Innovazione i prossimi progetti del governo: "Così da luglio i processi burocratici complessi saranno più veloci"
Luciano Capone: Buongiorno al ministro dell'innovazione Vittorio Colao da un anno nella sua veste di politico, dopo una vita nell'impresa privata delle telecomunicazioni e dell'innovazione. Grazie di aver accettato l'invito del Foglio.
Vittorio Colao: Grazie a voi.
Partirei da una domanda che calca l'attualità italiana da molti anni, ovvero la rete unica. Da poco c'è un'intesa tra i vari attori coinvolti, dalla Cdp a Tim, Open Fiber e alcuni fondi che sono trai principali azionisti delle aziende per andare verso appunto una rete unica. E' un unicum in Europa dove invece ci sono modelli più concorrenziali tra diverse reti nelle strutture; ed era anche quello italiano fino a poco tempo fa, con la nascita di Open Fiber, dove i governi avevano puntato alla concorrenza tra reti per sviluppare l'innovazione attraverso la concorrenza. Le chiedo se questo modello indica che gli altri paesi sbagliano e l'Italia fa bene oppure se negli anni scorsi ha sbagliato l'Italia a puntare sul modello concorrenziale che non ha portato ai risultati ottimali immaginati. Cosa è cambiato?
La ringrazio perchè mi dà l'opportunità di fare un po' di chiarezza dato che si parla di rete unica un po' a sproposito e anche nella sua domanda ci sono vari concetti. Innanzitutto la rete unica era la versione originaria in cui si prevedeva che Telecom comprasse Open Fiber e diventasse un operatore integrato dall'inizio alla fine e questo era si, un modello unico. Ciò di cui si parla oggi invece è diverso: la rete di Telecom Italia diventa insieme a quella di Open Fiber una rete non unica ma all'ingrosso che venderà accesso a tutti gli altri operatori. E questo è molto importante perchè sia io, che l'Europa abbiamo sempre pensato che sia giusto lasciare la scelta ai cittadini e che questa rete all'ingrosso sia neutrale rispetto a tutti gli altri operatori all'ingrosso. Quindi se la fusione tra Telecom e Open Fiber avverrà, il risultato sarà un operatore neutrale rispetto al mercato che lavorerà con tutti. In altri paesi la storia è diversa: ad esempio l'Olanda è più facile da coprire che non l'Italia, in altri paesi c'è stata la rete via cavo che ha rappresentato un'alternativa alle reti dei grandi incombenti però ci sono tanti paesi che stanno andando verso questa direzione appena delineata. Da Bt che ha la rete all'ingrosso e la sta potenziando, e anche la Danimarca, Australia e la Nuova Zelanda si stanno muovendo in questa direzione: io credo che questa separazione del livello tra rete all'ingrosso rispetto alla rete che serve il cliente finale avverrà sempre di più nel futuro. Però quello di cui parliamo oggi non è la stessa cosa di cui si parlava due anni fa.
Quindi è diversa l'idea di rete unica? Pensa che quella italiana possa diventare, se andrà in porto, anche un modello per gli altri paesi?
Se la facciamo bene si. Se facciamo una rete non unica ma all'ingrosso, aperta a tutti e che permetta di evitare duplicazioni di investimento nelle zone ricche, (trascurando così altre zone meno ricche) dando a tutti la possibilità di connettività, senza ridurre la concorrenza sul cliente finale allora si può parlare di modello anche per gli altri paesi. Chi ha già due reti in concorrenza meglio per loro ma non ci sono molti paesi in cui ci sono due reti completamente nazionali in concorrenza.
Il suo ministero, con il Pnrr, è diventato cruciale per questa strategia, che è italiana ed europea e pone tra i capisaldi appunto il tema dell'innovazione. Nel paese, ci sono molte aspettative da questo piano per modernizzare e far crescere l'Italia: a che punto sono i bandi, i progetti? Quali sono gli assi portanti di questo progetto? L'Italia ne uscirà davvero cambiata?
Io sono convinto che l'Italia ha l'opportunità di uscirne profondamente cambiata. Siamo in linea con il programma: tra qualche giorno potrò essere più trionfalista, ma per ora posso dire che siamo in linea con i tempi, abbiamo già concluso molte delle gare se non quasi tutte per quanto riguarda la connettività. Soprattutto anche grazie alla collaborazione di tanti operatori di telecomunicazioni, infrastrutturali, che di fatto saranno coloro che dovranno poi realizzare queste reti. Noi, istituzioni, mettiamo un contributo finanziario, ma loro le faranno e le gestiranno. Noi come governo e policy makers abbiamo anche il dovere di aiutarli a realizzare queste reti e ad avere i ritorni economici necessari nel settore. Tra qualche giorno daremo più dettagli ma posso dire di essere molto contento,di come stia andando la parte di digitalizzazione della pubblica amministrazione: sono contento sia sui numeri sai sulla qualità. Sui numeri stiamo andando molto bene: l'altro giorno sono stato a Lussemburgo e abbiamo parlato di identità digitale europea e di wallet europeo e posso confermare che l'Italia ha già l'infrastruttura pronta ovvero l'app Io che conta 28 milioni di utenti. Abbiamo 30 milioni di italiani che utilizzano l'identità digitale; il mese scorso tramite pagoPa sono passate 5 milioni di transizioni in euro. Quindi abbiamo un'infrastruttura che numericamente è già molto consistente. Però sono contento anche della qualità della relazione con i comuni e le regioni, c'è stata una risposta pronta e tanto entusiasmo, più di quanto ci saremmo aspettati. Abbiamo già quasi esaurito una della iniziative proposte perchè abbiamo avuto richieste in due mesi che pensavamo di distribuire nel corso di due anni. Ora viene il bello perhè significa iniziare a costruire però rispetto ai tempi siamo puntuali. Ultimo elemento che voglio citare è la sanità digitale che reputo importante perchè costituisce un rapporto trasformativo con il cittadino. Come sappiamo alcune regioni hanno fatto molto bene, altre meno e devono essere portate sullo stesso livello: ora il lavoro è quello di cercare di dare a tutti la stessa infrastruttura e la stessa qualità di servizio tramite la digitalizzazione e la remotizzazione. Questo è il grande compito che abbiamo, una volta concluso il discorso sulla connettività.
Si dice “Fare di necessità virtù”: giustamente lei ha detto che per via della pandemia sono stati molti gli italiani che si sono iscritti e hanno utilizzato l'app Io e pagoPa, sulla spinta dovuta al periodo. Qual è il rapporto tra gli italiani e l'innovazione tecnologica? C'è l'idea che gli italiani facciano fatica.
C'è secondo me un po' di mistificazione su questo discorso e con voi mi permetto di essere più riflessivo, essendo una testata di qualità: gli italiani non sono digitali quando le cose sono complicate. La responsabilità è degli amministratori e delle aziende che devono fare delle cose fatte bene come gli esempi che ho citato in precedenza. Gli italiani, l'hanno dimostrato con il Covid, quando c'è bisogno digitalizzano. A luglio partiamo con la piattaforma Notifiche: gli italiani risparmieranno parecchi euro sulle multe, sulle notifiche di casa e via dicendo e quando capiranno questi processi sono convinto useranno questi servizi. Quando noi glieli rendiamo complicati, non glieli disegniamo chiaramente allora ovviamente non vengono utilizzati. Io stesso leggo positivamente il fatto che i comuni, le scuole ci stiano chiedendo i soldi più in fretta di quanto noi pensassimo perchè vuol dire che anche loro sentono il bisogno di cambiare. Il problema è la complessità che abbiamo dietro e lo dico a voi che siete una testata che “riflette”. In Italia dobbiamo fare un'opera di cambiamento culturale ma non del digitale quanto più della cultura amministrativa complicata e burocratica che a volte avvolge questo paese. Ad esempio: l'app Io, che uso io stesso, richiede ad ogni accesso di certificare la propria identità. Ora stiamo cercando di cambiare ma non c'è motivo per cui sulle mie app bancarie abbia un'esperienza intuitiva e veloce e sull'app di stato debba essere complicato. Poi gli italiani, nel momento in cui si cambia, si adattano, non sono più indietro rispetto ad altri.
Infatti gli italiani per numeri di diffusione di smartphone o uso dei social network sono all'avanguardia: c'è scetticismo nel momento in cui il digitale si incontra con la pubblica amministrazione e con la burocrazia.
Allora dobbiamo essere più esigenti con noi stessi e rigorosi nel pensiero perchè la colpa non è degli italiani: se i cittadini sono ultra digitali nell'utilizzo dei servizi commerciali e molto meno nell'utilizzo dei servizi pubblici bisogna domandarsi se il problema è il digitale o il servizio pubblico. E questo vale per tutti gli ambiti: il rapporto con la giustizia, il rinnovo dei passaporti, delle carte d'identità... Perchè, ad esempio, bisogna presentare ogni volta documenti con delle informazioni che lo stato possiede già? Basta avere la piattaforma di interoperabilità che infatti stiamo creando. Per cambiare però bisogna che tutti abbiamo il coraggio di trasformare dei processi amministrativi e in certa misura anche normativi, sottostanti. Quindi vorrei cambiare la narrativa: più che cambiare la testa agli italiani, cerchiamo di cambiare i processi complicati che come stato abbiamo. E in questo modo vedremo che gli italiani la testa l'hanno buona.
Il timore o il rischio è anche che tutti questi investimenti che serviranno ad infrastrutture e amministrazione si scontreranno con una pubblica amministrazione che ha un'età media molto elevata e con dei ritardi fisiologici naturali nella conoscenza del mondo digitale. C'è una proposta di integrazione degli investimenti con una formazione del capitale umano della pubblica amministrazione di modo che diventi in grado di affrontare questi cambiamenti?
Certamente. I problemi sono quelli che lei ha già esplicitato nella sua domanda: da una parte bisogna fare più formazione e il collega Brunetta si sta attivando in questa direzione, ma da una parte bisogna anche inserire dei giovani. Non è solo formazione digitale ma anche avere a fianco qualcuno di giovane che sia più pratico di questi temi. Ad esempio, se io devo pagare una multa è assurdo l'iter che porta il comune a mandarmi la lettera e il conseguente pagamento della multa: un iter che ha anche un impatto ambientale controproducente. Ecco, noi ora lanciamo la piattaforma Notifiche la quale mi permette di ricevere appunto una notifica. Entrando nell'app che è anche un wallet, la multa, ad esempio, può essere pagata direttamente senza ulteriori passaggi, chiudendo così l'epserienza in pochi secondi. Ci vuole qualcuno che a livello comunale e ministeriale che colga questa trasformazione: ovviamente questo rompe degli equilibri preesistenti. Ma questo vuol dire che anche queste persone dovranno evolversi e andare più sul digitale: ma è anche una svolta in positivo perchè crea dei posti di lavoro più qualificati, nuovi e adatti a quello che i ragazzi vorranno fare. Ci vuole un coraggio di innovazione di processi e di innovazione dei nostri servizi.
A proposito di innovazione e regolamentazione, il Ministero prevede qualche forma per facilitare l’innovazione come il regolatore Sandbox, una forma di deroga per specifici progetti per sperimentare alcune forme di innovazione. Come funziona? Ci sono già dei feedback?
Non enorme. C’è una risposta ed è una normativa introdotta dal governo precedente che è giusta e di cui tutti i paesi parlano. Cosa è un sandbox? È una zona dove sperimentare qualche cosa che altrove non sarebbe possibile sperimentare. L’esempio classico sono gli autobus navetta senza guidatore che non li puoi fare andare in strada, ma se io definisco una zona dove in condizioni di sicurezza si può sperimentare, si può fare. Può anche essere autorizzare di fare qualche cosa al di fuori di regole esistenti non solo dal punto di vista geografico. Non abbiamo ricevuto un enorme numero di richieste. Un po’ perché è poco conosciuto e quindi c’è il tema della comunicazione che riduce l’impatto. In Italia poi c’è un po’ un’attitudine di non crederci. Non si crede tanto che sia vero o che sia possibile. Un esempio, sono stato recentemente a Milano a visitare Mine, che è questa zona moderna che sta sorgendo dove si è fatto Expo e quando ho visto che c’erano gli autobus navetta e ho detto “ma scusate questa è la zona dell’innovazione italiana, dovreste fare qui la sperimentazione degli autobus senza guidatore, è il posto classico dove si potrebbe fare”. Chi fa cose nuove dovrebbe anche cercare di costruirci dentro un po’ più di innovazione. Lo stiamo facendo devo dire abbastanza sul fronte energetico, dobbiamo andare al di fuori delle cose ovvie e cominciare avere il coraggio di dire “sperimentiamo qualcosa di diverso”.
In Italia c’è una forma di diffidenza strutturale?
Si, di nuovo, dobbiamo sfatare questi miti che diventano qelle che in inglese chiamano self fulfilling profecies, profezie autoavveranti. Se dici che in Italia non succede per forza non succede, dieci persone lo sento e si convincono, lo raccontano in giro e così via. L’Italia è da sempre un paese di innovatori dal punto di vista tecnologico, nell’arte e in tanti campi. Sembra però che gli innovatori lo siano quasi contro il sistema, contro la volontà di tutti. Invece non è così e dobbiamo dire “non è vero non è cosi, venite e vi aiuteremo”. Paradossalmente io sto ricevendo più imprese straniere che vorrebbero venire a fare queste cose in Itali, rispetto alle imprese italiane. Dobbiamo incoraggiare di più e dare un sostegno sui processi amministrativi a chi vuole sperimentare fuori dalle regole. Con l’unica eccezione del sistema finanziario, lì la sperimentazione fuori dalle regole sarei meno incline a sostenerlo.
In questa impostazione sull’innovazione, dato che servono fondi e capitali, in gran parte è calato dall’altro. La forza dell’innovazione però è quando emerge dal basso, ma per farla crescere serve un ambiente favorevole. Cosa bisogna fare per costruirlo in Italia?
Ci sono due cose. Uno è l’ambiente universitario, che è importantissimo perché molta sperimentazione nasce in ambienti dove ci sono idee e non ci sono limititi. Tipicamente l’ambiente accademico dovrebbe essere quello giusto. Le universita italiane si stanno muovendo in quella direzione ma diciamo che ci siamo mossi in ritardo. Da noi il professore è quello che scrive i paper e non quello che fa innovazione. Infatti se si guarda alla produzione scientifica italiana è ottima, ma la produzione di brevetti italiana non è altrettanto buona. C’è un tema di impostazione dell’ambiente accademico. Ci sono stati dei grandi progressi negli ultimi quattro o cinque anni e la ministra Messa sta spingendo molto nella direzione di un’università non puramente improntata alla ricerca ma anche all’innovazione, però è chiaro che le università devono essere l’ambiente da cui questo diventa il mito. Rischiamo di dire le solite banalità per cui quello bravo da noi è quello che prende tutti 30 e lode e si laurea col massimo dei voti, mentre in altri posti quello bravo è quello che al secondo anno ha gia fatto startup, brevetti, innovazioni. La verità chiaramente sta nel mezzo, noi arriviamo da quel modello e dobbiamo muoverci verso un altro modello. E quindi il mondo accademico può fare molto e sta già facendo. Tutti stanno aprendo centri, incubatori, centri di trasferimento tecnologico, ecc. Devono tenere la linea e non abbandonarla. Il secondo punto è quello che dicevo prima, dobbiamo favorire con dei sandbox la sperimentazione, quando arriva qualcuno che vuole provare, e abbiamo la legge che ce lo permette, qualcosa che non è permesso dirgli “va bene vallo a fare, in quella zona, con queste modalità di monitoraggio, fallo pure”. C’è l’impianto per farlo, dobbiamo poi nei fatti favorirlo e fare andare avanti chi innova. E aggiungo una cosa, siccome poi nascono le resistenze di chi c’è e non vuole che cambi niente. In questi casi bisogna anche dire “accetta che dobbiamo sperimentare”, quindi fermare le molteplici lobbies che resistono sempre al cambiamento in Italia.
L’innovazione porta sempre dei perdenti nel processo di innovazione?
L’innovvazione non porta dei perdenti, obbliga tutti a muoversi, scalza chi ha la rendita di posizione. Diventa perdente solo chi sta fermo. Ma se una volta che si viene scalzati, si reinveste e si rinnova, l’innovazione non fa perdere nessuno. Ogni tanto ho l’impressione che ci siano alcune categorie che vorrebbero solo mantenere lo status quo, ma per motivi di rendita di posizione e non per motivi più nobili. Su questo dovremmo essere un po’ più decisi nel dirlo e chiamarli col loro nome quando serve.
A proposito di rendita di posizione, c’è un tema in Europa molto conflittuale, quello delle grandi piattaforme, che non sono europee ma americane. L’Ue sta andando verso una regolamentazione delle piattaforme. In che direzione ci stiamo muovendo?
È un tema che mi appassiona e su cui come Italia abbiamo giocato un ruolo molto più attivo che in passato nell’ultimo anno. Siamo uno dei paesi che contribuisce di più a queste legislazioni. Stiamo parlando di 4-5 grandi atti, forse 6 con la sicurezza. Sono misure orientate a dire “se sei grande hai il diritto di essere grande ma devi permettere ai piccoli di innovare e di non abusare della tua forza nei riguardi di chi è più piccolo” e questo è il Digital market act. Assegna degli obblighi nei confronti di questi grandi player che non sono solo americani ma anche cinesi. L’immagine che io uso sempre è che nessuno ti può colpevolizzare se sei un elefante, ma se sei un elefante in cristalleria devi muoverti con una certa cura perché sennò si rompe tutto. Quindi la dimensione porta più obblighi. Non si colpevolizza nessuno. Il secondo è quello sulle responsabilità del mondo online, che non possiamo fermare e che continuerà a svilupparsi. Dobbiamo essere sicuri che la tutela dei diritti indivuali e della proprietà intellettuale avvenga anche online. L’esempio classico è il made in italy o in generale l’origine dei prodotti. È molto facile dire “ma io non ho nessuna responsabilita. Sono solo un agente e metto in contanto un compratore con un venditore”. Qualche responsabilità ce la hai, perché allo stesso modo del vigile interviene se in un negozio si vende una borsetta falsa, la stessa cosa deve succedere anche online. Non si può continuare a pretendere che non si devono tuttelare queste cose. Molto importante sarà anche il Data act. Di nuovo di chi sono i dati? Cerchiamo di far sì che si utilizzi il valore dei dati più ampiamente e che non finsicano tutti catturati da pochi grandi che possano sviluppare qualunque servizio sulla base degli stessi. Evitare che grazie a questo ci sia il self preferencing, cioè che siccome io ho molti dati continuo a raccomandare i miei servizi e le mie cose e non magari quelle di un’attività più piccola. Sono una serie di regole che non sono fatte per fermare le innovazioni, ma anzi per pemettere che l’innovazione continui e sia portata avanti anche da soggetti che non sono i giganti, che sono per lo più americani o cinesi, e in generale non solo dalle aziende grandi. E devo dire che anche qui l’Ue sta facendo scuola perché c’è molto interesse anche fuori dall’Europa per quello che stiamo facendo.