oltre gli schermi
Non solo Sheryl Sandberg. Tutti i numeri due dei geni della tecnologia
Zuckerberg la prese perché fosse "l'adulto nella stanza", è stata lei a trasformare Facebook in un solido business. Ora se n'è andata. Ma questi nerd geniali hanno bisogno di qualcuno che gli guardi le spalle, come Eric Schmidt per Page e Brin, fondatori di Google
Quando Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg si incontrarono per la prima volta, nel 2008, lui aveva 23 anni e Facebook, la sua startup, valeva 15 miliardi di dollari. Zuckerberg aveva da poco abbandonato l’università ed erano ancora i tempi in cui era famoso per andare sempre in giro con ciabatte di plastica della Adidas, anche d’inverno. Sandberg aveva 15 anni più di lui, 38, ed era una manager rispettata con una carriera brillante: si era laureata ad Harvard, era stata capo di gabinetto del segretario al Tesoro Larry Summers nell’Amministrazione di Bill Clinton, e infine era stata assunta da Google, dove aveva gestito l’enorme crescita del settore pubblicitario dell’azienda, contribuendo in maniera notevole al suo successo. Quando Zuckerberg riuscì ad assumere Sandberg, di gran lunga l’assunzione più importante fatta fino a quel momento – e probabilmente è ancora così – il suo ufficio stampa rese pubblica qualche motivazione di circostanza: disse a Kara Swisher, la più importante giornalista tecnologica di sempre, che Sandberg era stata scelta perché “ha la giusta esperienza nell’industria per Facebook, soprattutto ora che dobbiamo espandere le nostre operazioni a livello globale”. In realtà tutti sapevano – Zuck e Sandberg per primi – che era stata assunta con un grande obiettivo: essere l’adulto nella stanza.
Facebook era nato da poco, e benché fosse già un gigante con ambizioni globali non sapeva bene cosa fare da grande; Zuckerberg era un ragazzo inesperto e a disagio con le convenzioni sociali, che in una famosa intervista pubblica – sempre con Kara Swisher – fu costretto a togliersi la felpa perché era stato preso da un attacco di panico e aveva cominciato a sudare incontrollabilmente. Serviva una persona che sapesse sempre cosa fare, che guidasse Zuckerberg nelle decisioni più importanti, che trasformasse la startup dalla crescita tumultuosa in un business con basi solide. Serviva anche una persona che desse credibilità a Facebook, avesse i contatti giusti con il mondo degli adulti, sapesse rapportarsi da pari con gli altri manager, trattare con la politica, gestire la stampa famelica. Sandberg fece tutto questo, e anche di più, per anni. Dopo Zuckerberg, è stata la persona più influente della storia di Facebook e una di quelle di maggior successo: nei suoi primi dieci anni a Facebook ha dato un contributo essenziale nel portare le entrate dell’azienda da 150 milioni a oltre 30 miliardi di dollari.
Zuckerberg era un ragazzo inesperto e a disagio con le convenzioni sociali. Serviva una persona che sapesse sempre cosa fare
Quando, il 1° giugno, Sandberg ha annunciato le sue dimissioni da Facebook, è stata indicata come una delle “numero due” di maggior successo dell’industria tecnologica americana – oltre che probabilmente la manager più potente del mondo. Non che la sua legacy sia immacolata: soprattutto negli ultimi anni è stata coinvolta in vari scandali, dall’influenza di Facebook nell’ascesa degli estremismi in occidente a Cambridge Analytica. Ma il suo ruolo come numero due di Facebook e come guida per Mark Zuckerberg è ancora prototipico. Come ha ricordato in questi giorni l’esperto di cose tecnologiche Casey Newton, per anni tutte le startup ad alto potenziale degli Stati Uniti “parlavano apertamente di ‘trovare una Sheryl’ per aiutarle a crescere e maturare”. Un adulto nella stanza, appunto.
Sheryl Sandberg è l’esempio più recente di “numero due” di un’azienda importante e influente quasi quanto il “numero uno”, ma nel mondo della tecnologia non è stata l’unica (e qui ci soffermeremo sul mondo della tecnologia, che ha le sue peculiarità, ma si potrebbe andare ben oltre).
Un altro famoso numero due dell’industria tecnologica moderna è Eric Schmidt, che è stato ceo di Google dal 2001 al 2011, e poi presidente dal 2011 al 2015. Anche lui fu chiamato a fare l’adulto nella stanza: Google era stato fondato nel 1998 da Larry Page e Sergey Brin, due ragazzi poco più che ventenni geniali, ma praticamente privi di qualunque esperienza imprenditoriale. Gli investitori di Google decisero che per guidare l’azienda dal punto di vista del business serviva una persona con maggiore esperienza e chiamarono Schmidt, manager con una lunga carriera in altre aziende tecnologiche e soprattutto con vent’anni più di Brin e Page. Al contrario di Sandberg, che fu fatta coo (chief operating officer) dell’azienda, carica che certifica la posizione di secondo nella gerarchia, Schmidt fu fatto ceo (chief executive officer), cioè la carica più importante. Brin e Page rimasero comunque azionisti di maggioranza di Google (lo sono ancora, grazie a un particolare sistema che di fatto rende impossibile rimuoverli) e mantennero un’influenza fondamentale sull’azienda soprattutto per gli aspetti tecnici e per l’ideazione di nuovi prodotti. Ma per quanto riguarda il business, per vari anni Schmidt fu il vero numero uno, e uno dei principali artefici del successo commerciale di Google. Soprattutto nel primo periodo, Page, Brin e Schmidt furono di fatto un trio, considerati responsabili del successo dell’azienda in maniera paritaria: i due fondatori timidi e geniali e il manager che creava le basi di un’azienda di successo, loro in maglietta e lui in camicia. Sono numerose, in quegli anni, le foto e le copertine che li mostrano tutti assieme, o le interviste in cui Brin e Page parlano sul palco e Schmidt è poco distante, come per sorvegliarli. In molti casi, Schmidt ha un piuttosto esplicito atteggiamento paterno.
Brin e Page, fondatori di Google, parlano sul palco e il ceo Eric Schmidt è poco distante, come per sorvegliarli. Ha un esplicito atteggiamento paterno
Questo sistema, in cui l’adulto nella stanza diventava ceo della startup e la prendeva in gestione dai giovani fondatori, era piuttosto comune nei primi anni delle piattaforme. Successe anche a Yahoo! nel 1995, quando su spinta degli investitori i due fondatori Jerry Yang e David Filo offrirono il posto di ceo all’ex manager di Motorola Tim Koogle, che lo tenne fino al 2001, e poi rimase presidente fino al 2003. Yang e Filo, peraltro, rimasero molto meno coinvolti nella loro azienda di quanto non siano stati Brin e Page, che si sono allontanati dalle operazioni quotidiane soltanto da pochi anni.
Se il primo prototipo di “numero due” nell’industria tecnologica è quello dell’adulto nella stanza il secondo prototipo è quello del partner, o del discepolo – non cioè una figura matura che possa guidare imprenditori alle prime armi, ma una figura complementare che possa aiutare l’imprenditore geniale nella costruzione dell’azienda da pari a pari, o sotto di appena un gradino.
La storia di Apple, per esempio, è ricca di figure di questo tipo: numeri due che hanno orbitato attorno all’astro di Steve Jobs, e il cui ruolo è stato molto spesso vitale per portare l’azienda al successo. Una di queste figure potrebbe essere Steve Wozniak, “l’altro Steve”, che fondò Apple assieme a Jobs in un garage di Los Altos, California. Wozniak in realtà fu molto più che un numero due, fu il genio tecnico che sviluppò tutte le prime innovazioni di Apple, mentre Jobs era l’uomo del marketing, delle pubbliche relazioni, delle grandi visioni. Ma per questioni caratteriali e attitudini personali, Wozniak rimase sempre un passo indietro, lasciò che Jobs si prendesse il palcoscenico e con il passare degli anni divenne un fidato consigliere e rimase un favoloso nerd: a Woz il potere non è mai interessato.
Non solo “adulti nella stanza”, ma anche figure che possano aiutare l’imprenditore geniale da pari a pari. La storia di Steve Jobs e Apple ne è ricca
Una figura del genere, sebbene molto diversa, è anche Tim Cook, che divenne ceo di Apple dopo la morte di Jobs. Come Sandberg, anche Cook ebbe la carica di coo, chief operating officer, ma al contrario di Sandberg non ebbe mai bisogno di essere l’adulto nella stanza: Jobs era già abbastanza adulto, e comunque nella stanza c’era sempre e soltanto lui. Cook trasformò comunque Apple in maniera sottile ma estremamente influente: si occupò della logistica, di rendere le operazioni più efficienti, dei fornitori – di tutte quelle cose, in pratica, che non riguardavano progettare eleganti apparecchi di vetro e metallo, ma che rendono un’azienda solida e capace di espandersi nel mondo. Jobs riconobbe questo valore e lo scelse come suo successore.
Questo tipo di numeri due, i partner e i discepoli, sono decisamente i più comuni, e rispecchiano un percorso di carriera lineare: un manager brillante che si guadagna la fiducia del capo, lo sostiene nel suo lavoro e poi ne raccoglie l’eredità quando viene il momento. E’ successo ad Andy Jassy di Amazon, che ha sostituito Jeff Bezos nel ruolo di ceo, a Ted Sarandos di Netflix, che ha sostituito il fondatore Reed Hastings, e così via.
Il numero due di Bill Gates – Paul Allen, morto prematuramente nel 2018 a causa di un linfoma di Hodgkin – fu una figura a metà tra l’adulto nella stanza e il partner. Allen e Gates erano coetanei, e soprattutto nei primi anni di Microsoft collaborarono assieme da pari a pari: tra le altre cose, fu proprio Allen a ideare il nome Microsoft. Ma in molte delle prime fotografie pionieristiche di Microsoft, nei primi anni Ottanta, i due hanno un aspetto molto differente: Allen quasi sempre in giacca e cravatta, Gates in maglionicino e jeans. In quel periodo, Allen fu anche l’adulto nella stanza, quello che ebbe un ruolo predominante nell’assicurare a Microsoft i primi importanti contratti commerciali. E la sua figura ibrida e peculiare si rispecchia anche nel fatto che il suo distacco da Microsoft fu abbastanza precoce: si dimise nel 2000, dopo che da oltre 10 anni era comunque già impegnato in altri progetti, ma rimase comunque uno dei principali azionisti di Microsoft, e un amico di Gates. Con le ricchezze guadagnate in Microsoft, Allen si rifece poi un’altra vita: divenne un importante investitore, proprietario di squadre sportive, e un grande filantropo.
C’è poi il rivale, quello che mina il successo del numero uno per sostituirlo. Figure poco frequenti: un’azienda disfunzionale difficilmente ha successo
C’è poi un terzo tipo di “numero due”: il rivale, cioè quello che mina il successo del numero uno per prenderne il posto. Sono figure poco frequenti, perché un’azienda disfunzionale difficilmente è un’azienda di successo. Ma nell’industria tecnologica, dove negli ultimi due decenni si poteva crescere e creare fortune nonostante la disfunzionalità, ci sono alcuni casi ben noti. Prendiamo Twitter. Nelle ultime settimane si è parlato moltissimo dell’azienda per le sue ormai celebri disavventure con Elon Musk, che prima ha fatto un’offerta per comprare il social network, poi ha cominciato a creare problemi giganteschi, probabilmente per risparmiare sul prezzo. Ma se torniamo indietro di quindici anni, ai primi tempi del social network, le cose erano decisamente turbolente: i quattro fondatori (Jack Dorsey, Noah Glass, Biz Stone ed Evan Williams) trascorsero gran parte del loro tempo a tramare gli uni alle spalle degli altri. Come raccontò il giornalista Nick Bilton nel suo libro “Hatching Twitter”, Dorsey e Williams dapprima cospirarono per buttare Noah Glass fuori dall’azienda. Dorsey divenne ceo ma Williams, poco tempo dopo, buttò anche lui fuori da Twitter per prenderne il posto. Williams divenne ceo, ma fallì piuttosto miseramente, in parte perché ostacolato da Dorsey: fu costretto alle dimissioni, e a quel punto Dorsey fece un ritorno trionfale in Twitter, ponendo fine a oltre cinque anni di faide, in cui i fidati cofondatori si erano trasformati in cospiratori.
Infine ci sono i solitari: i numeri uno che non hanno bisogno di numeri due, o quanto meno non hanno bisogno di numeri due influenti. Sono estremamente rari nell’industria tecnologica, perché è difficile tirare su un’azienda milionaria, o perfino miliardaria, senza qualcuno con cui confrontarsi da pari a pari. I solitari sono personaggi peculiari, sempre geniali, molto spesso inaffidabili. Elon Musk è uno di questi.