Sui social conta apparire
Ecco perché le app per i messaggi anonimi sono un flop
La nuova app Ngl (not gonna lie) fatica a decollare. Se tutto in noi urla che vogliamo essere visti, molto più che ascoltati, possiamo essere attratti da un algoritmo che cela del tutto la nostra esistenza?
Avrete notato che Instagram è cambiato e non poco, per garantire allo user un’esperienza più immersiva – dicono da Meta – così da infilarsi una volta per tutte nell’isolamento caotico e nel vacillamento visivo dei contenuti che provano a uscire dalla liscia piattaforma dello smartphone. C’è però un’altra novità passata in sordina, e che al momento ha disatteso le aspettative di diventare trend indiscusso: si tratta di Ngl, acronimo di “not gonna lie”, una app che consente di mandare messaggi anonimi. Si intuisce che, trattandosi di un gioco pericoloso soprattutto per i più giovani, la app abbia previsto dei filtri per disciplinare linguaggi inappropriati (come se per ferire fosse necessario essere triviali) affidando agli algoritmi l’applicazione di un’unanime definizione di “divertimento sicuro”.
Per quanto necessario, tuttavia, il dibattito etico è forse superfluo perché, nella prassi, la app è stata lanciata ormai da qualche settimana ma fatica a spopolare come da ottimistiche previsioni. Il meccanismo desta perplessità da qualsiasi punto di vista lo si consideri. In primo luogo, l’Io-user deve essere disposto all’imprevisto, e quindi anche ad accogliere giudizi scomodi e feroci; dovrebbe poi, coerentemente con lo scopo della app di aumentare le interazioni, accettare di ricondividere non soltanto le eventuali affettate adulazioni ricevute, ma anche le suddette possibili stilettate. Ma nella logica egotica del (a)social, è il capitale narcisistico a dettarne le dinamiche, rimuovendo i tagli, le brutture, a meno di non esporle per generare compatimento. Così prima di usare la app l’Io-user deve tenere in conto tutti questi fattori: la mia persona è sufficientemente sicura di sé da esporsi motu proprio al fuoco di sicari incrociati? E in caso di eventuale dileggio da parte del popolo semi-conosciuto, sarò disposto a incrinare la patina scintillante del mio profilo social?
Se poi sovvertiamo il punto di vista, e adottiamo quello del follower invitato a porre le domande, scopriamo un altro ostacolo all’uso della app, e cioè: vogliamo ancora nasconderci dietro l’anonimato? Se tutto in noi urla che vogliamo essere visti, molto più che ascoltati, possiamo essere attratti da un algoritmo che cela del tutto la nostra esistenza? Se possiamo mentire attraverso la più sottile arte della falsificazione, non saremo indotti all’uso di Ngl: piuttosto il bot, un alter ego fittizio, il profilo del cugino, ma che lasci qualche traccia che identifichi il mio passaggio a tutti i costi, altrimenti è rimozione, è oblio. O peggio: è oscuramento. Le scelte lessicali sono sempre eloquenti: un profilo può essere oscurato, cioè è possibile gettare il buio su quell’identità digitale, immergerla nella camera scura. Una condizione intollerabile, che causa l’arrancare delle app in cui l’anonimato è pattuito e non si configura come trasgressione.
Ecco che viene a noia persino l’eccitamento di una subitanea trasgressione. Perché tanto ormai la distanza tra estetica e pratica quotidiana è irrisoria, e il voyeurismo si è normalizzato in costume. Il contrappasso per il privato che non accetta di dissolversi nell’estetismo parossistico è una liquefazione solinga. I flussi comunicativi appartengono al regno dell’esibizione a cui il mistero è nemico: la trasparenza finta e spasmodica, scrive Ceccarelli dopo un viaggio lì dentro, altro non è che il nutrimento di una pornografia cruda e livida ai limiti dell’osceno.
Del resto i concetti sono sempre storicamente situati, e viene da sorridere se in questo tempo senza veli ci interroghiamo sulla supposta oscenità di Miller e ancora proviamo a redimerla. Di certo Il tropico oggi avrebbe l’utilità sociale di ricordarci le tinte pure dell’erotismo, che è eclissi misurata, parziale sottrazione di senso, pratica di seduzione in cui lo svelamento è graduale, perché lo sguardo non è mai affare innocente. E invece noi, voluttuosamente, abdichiamo all’anonimato.