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La riflessione

“Che cos'è la realtà”, è questa l'unica domanda che rivolgiamo a ChatGPT

Costantino Esposito

Chiedi e ti sarà dato: ma la tecnologia è davvero in grado di soddisfare l'attesa e il desiderio che le attribuiamo? Quel che è in gioco nel dibattito su limiti e ricadute dell’intelligenza artificiale

Il 22 e 23 marzo 2023, al Teatro Duse di Bologna si terrà il Convegno finale della decima edizione delle “Romanae Disputationes”, il concorso nazionale di filosofia per liceali, che vede il coinvolgimento di centinaia di team dalle scuole di tutta Italia, che partecipano con tesine, video o monologhi, e si cimentano in un torneo di dispute filosofiche. Il tema di quest’anno è “Che cos’è la realtà?”. Il percorso è stato inaugurato lo scorso settembre da una lezione di Mario De Caro (Università Roma Tre), si è sviluppato con diverse videolezioni di accademici ed esperti italiani attenti al mondo della scuola, e sarà conclusa – prima della proclamazione delle classi vincitrici – da una conversazione di Costantino Esposito (Università di Bari) sul tema “Ai confini della realtà”, di cui anticipiamo un breve stralcio.



“Ask me anything”, “chiedimi qualsiasi cosa!” è l’invito che ha cominciato a correre nella rete subito dopo il rilascio di ChatGPT, l’intelligenza artificiale che “conversa” tranquillamente e automaticamente con gli “umani”, pescando nell’immenso, mostruoso deposito di dati archiviato nella rete informatica. Ad esempio su Reddit, il più noto portale di domande e risposte fra utenti di internet, l’hashtag “Ask me anything” è stato il più usato. Ugualmente, la milionaria compagnia Google ha rilasciato un’estensione, per gli utenti che usano il proprio motore di ricerca, dal titolo “Ask Ben (Chat GPT) Anything AI” per accedere immediatamente alle funzionalità del Chatbot da conversazione. Quello di chiedere ogni cosa – ossia tutto quello che si vuole – suona come un invito senza dubbio allettante, forse un po’ malizioso, ma di certo perentorio, apparentemente senza via di scampo nella sua pretesa di offrire la totalità di quello si può e si potrà indefinitamente sapere del mondo. La sua perentorietà ricorda l’iscrizione posta sul tempio di Apollo a Delfi, “conosci te stesso”. Per entrare nello spazio sacro del Dio, o come diremmo in maniera più secolarizzata, per introdurci al senso ultimo ed enigmatico della realtà, alla sua verità nascosta, eravamo chiamati dalla sapienza antica a prendere coscienza e conoscenza di quello che siamo noi. Quell’iscrizione ci diceva che la chiave per decifrare il mistero – cioè il problema – del mondo era in noi.

 

Ora invece l’esortazione di partenza è: puoi chiedermi tutto e avrai risposta. La domanda degli umani diventa una specie di password, un codice di accesso per arrivare alla risposta che sappiamo è già lì pronta e ci aspetta. Piuttosto che andare in mare aperto per una pesca d’altura, lì dove il tentativo è più rischioso, si allestisce uno dei quei bacini artificiali dove si può comodamente pescare il pesce rifornito di continuo ai clienti/utenti che vogliono sentirsi veri pescatori. Non si tratta naturalmente di rimpiangere la pesca naturale rispetto a quella artificiale, anche perché le risorse e i vantaggi di quest’ultima sono strepitosi e assolutamente desiderabili per i pescatori. Si tratta piuttosto di capire se l’artificiale (ossia la simulazione dell’umano) riesce a soddisfare tutta l’attesa e il desiderio di sapere degli umani circa sé stessi e il mondo, semplicemente programmandoli, o se resta una differenza tra i due: cioè se l’intelligenza naturale rimanga come origine di quella artificiale (come di fatto, storicamente è stato), o se quest’ultima può creare finalmente il suo creatore.

 

Ma questo scambio tra intelligenze, una, la nostra, che chiameremmo ancora “naturale” (sebbene sin dall’inizio dei tempi armata e sviluppata “tecnicamente”) e l’altra, quella del software, artificiale, cioè programmata per simulare una conversazione tra umani, è molto più che una procedura abilissima e di successo per elaborare informazioni: essa è, o meglio ha la pretesa di essere, la più immediata via di accesso alla “realtà”. Tutto il dibattito che si è acceso circa le possibilità, i limiti e le ricadute (eticamente legittime o ambigue) dell’intelligenza artificiale ha niente di meno che questa posta in gioco: rispondere alla domanda su “che cos’è la realtà”. Solo che questa volta bisogna invertire il gioco del chatbot, pronto a darci tutte le risposte che vogliamo, perché siamo noi a dover rispondere a quell’interrogativo. E non semplicemente per fornire una definizione teorica su ciò che è veramente o possibilmente reale e ciò che non lo è: obiettivo filosofico senza dubbio del massimo interesse, ma da cui non si può partire, come si partirebbe da una teoria a priori, bensì a cui si deve arrivare muovendo dall’esperienza che abbiamo di noi stessi e del mondo. Non si tratta di prendere ingenuamente per buone, tanto meno per definitive, le risposte che un algoritmo sofisticato può darci (e di cui comunque gli siamo grati!), ma di prendere sul serio le domande che il mondo pone a noi. Ogni risposta che il chatbot può darci si rovescia in un interrogativo, poiché chiede a noi – e può chiederlo solo a noi – di capirla e di utilizzarla. Ogni dato, evento, situazione, ogni problema dell’esperienza, cioè dell’esistenza del singolo e del mondo intero, chiede infatti a noi di dargli un senso. È questa competenza del senso ciò che rende solo noi umani e che rende solo “artificiale” l’algoritmo, ma scopre come “reale” il mondo.

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