come cambia l'arte
Due passi nei metaversi artistici per capire meglio l'intelligenza naturale
Istallazioni interattive e suggestive che mandano un messaggio: non avere paura della tecnologia. La mostra a palazzo Cipolla di Roma
In principio era più semplice, la percezione dell’arte, dico. Di qualunque cosa si trattasse, l’arte si sentiva, a differenza della scienza che prima si deve capire, per poterne poi godere. Poi abbiamo tutti la sensazione che l’arte serva alla vita, riguarda il nostro abc sentimentale, diciamo infatti: quel libro, quel quadro, quel film, insomma quell’espressione artistica, mi ha cambiato la vita. Chiaro, molto probabilmente non è vero, insomma vattelapesca se nella sequenza incompressibili di eventi, quel libro ha cambiato la nostra vita o siamo noi che riscriviamo la nostra storia, puntando su un elemento scatenante. Il fatto certo è che trattasi di roba ancestrale: le storie, così come noi le conosciamo e le sentiamo e le raccontiamo ancora, sono nate davanti al fuoco. Molti studi sulle popolazioni prelettarate insistono sulla diversa forma che il racconto assume se è diurno o notturno. Nel primo caso si tratta di pettegolezzi e di gestione dei fatti quotidiani, nel secondo caso, vuoi la notte che arriva, vuoi la luce traballante della fiamma che trasfigura i volti, i racconti assumono la forma mitologica. Le storie allora servivano a imparare qualcosa (attraverso elementi trasfigurati appunto) a e non dimenticarlo, anche perché a differenza della modernità, imparare o non imparare non era un capriccio, ma una necessità per mantenersi vivi. Per questo motivo, le storie e l’arte fino all’altro ieri si sentivano, e infatti, per esempio, per facilitare la fruizione nell’arte pittorica ci siamo fissati con la prospettiva, la geometrica, la focalizzazione e con la mistica religiosa. Questo fino all’altro ieri. Poi qualcosa è cambiato e sta ancora cambiando, ma le storie moderne stanno ancora lottando contro quel sentire ancestrale, che è la grande forza e il grande limite delle storie. Della forza e del limite del passato, della difficoltà di far percepire nuove forme artistiche potete fare esperienza visitando la mostra ipotesi Metaverso, a Roma, ospitata a palazzo Cipolla.
Lo so che uno pensa al Metaverso e si mette a ridere, e dice: ma vuoi mettere con Bernini, eppure questa esposizione è un pregevole tentativo di prendere il testimone dal passato, liberarlo dai lacci delle regole artistiche, note, conosciute, ripetute fino allo stremo, e rendere lo spettatore meno passivo, meno esposto al ricatto delle emozioni e alla pubblicità religiosa, spesso magniloquente e controriformistica, più brechtianamente attivo, collaborativo e artista a suo modo. Il tentativo è interessante, anche perché volente o nolente segnala l’arte che verrà da qui a breve, i nuovi spazi di riflessione che dovremmo fare per abitare meglio il mondo e detto per inciso, riflessioni che si spera ci detronizzano dal fardello della volontà e libertà e individuino meglio le fallacie a cui andiamo incontro, le debolezze insite nella natura umana, la vaghezza di certe illusioni. Ipotesi Metaverso concretamente parlando è fondata sul virtuale, ovvio. Le istallazioni sono interattive e suggestive, recano con sé un suggerimento: non aver paura della tecnologia, sfruttala a tuo vantaggio, fa in modo che sia la nuova torcia, o per citare quel gran reazionario che è stato Ivan Illich, la nuova fiammella su cui soffiare per mantenere vivo il fuco della conoscenza. Ho apprezzato molto ipotesi Metaverso: è il nuovo fuoco, la fiamma che fa trasfigurare i nostri corpi. E infatti con molto divertimento ho provato Decentraland: un volo tra i grattacieli del Bronx. Ho indossato la maschera Meta, impugnato i controller e una volta aperte le braccia ho volato tra i grattacieli, quando invece le ho chiuse ho frenato la caduta. Esperienza artistica nuova, unita poi alla possibilità di aprirti a visioni diverse dalle solite, cambiare in un attimo punto di osservazione, liberare il corpo dai vicoli della gravità e dalle regole prospettiche. È stato così entusiasmante che volando tra edifici, muovendomi di colpo sono caduto dallo sgabello su cui ero seduto. Ho chiuso le braccia per istinto atavico e incredibilmente ho rallentato la caduta nel metaverso ma non quella nel mondo reale, infatti ho preso una ginocchiata. Tutto ciò mi ha portato a una riflessione: se cadi nel metaverso hai la sensazione di liberarti dalle fatiche ma se cadi nella realtà ti fai male, l’arte finora ha cercato di raccontare il pericolo della caduta e spesso la fatica di rialzarsi, per questo la sentiamo vicina, anche se non la capiamo tout court. Per ora l’ipotesi del metaverso apre nuove prospettive, ci fa apprezzare certe suggestioni riflessive e libera l’uomo dalla fatica e dalle cadute, quindi dal dolore. Un grande passo per l’umanità ma un punto debole per la creazione artista, perché l’umanità cade e continuerà a cadere. Dunque, i prossimi gruppi di artisti dovranno affrontare questo dilemma: se e come una volta smaterializzati, se e come in compagnia di tutto, saremo ancora fragili, se insomma ci reggeranno le ginocchia o come spesso succede sentiremo ancora la voglia di tanto in tanto, vuoi per accidenti della vita, vuoi per la proverbiale pesantezza sulle spalle di inginocchiarci di fronte alla vastità.