Ragioni per essere ottimisti
Niente panico sull'Ia. Non è una killing innovation ma una driving innovation
L’innovazione tecnologica sarà meno distruttiva di quel che si dice: potrebbe anzi diventare la spinta per un un nuovo ciclo di sviluppo. E anche le conseguenze sulla forza lavoro saranno contenute
Le notizie sulla morte del lavoro per mano dell’intelligenza artificiale sono quanto meno esagerate. Già dieci anni fa l’università di Oxford aveva stimato che l’introduzione massiccia dell’automazione avrebbe spazzato via il 47 per cento dei posti di lavoro americani. Non è successo, al contrario il tasso di disoccupazione che allora negli Stati Uniti era all’8 per cento, si è dimezzato. Come prova contraria possiamo prendere l’Europa dove il progresso tecnologico è più lento e la disoccupazione più elevata. Vabbè, ma l’la presenta il volto truce di una “innovazione assassina”, perché porta “la mente estesa” a un vero e proprio rovesciamento. Non lo dicono solo gli sceneggiatori di Hollywood, ma anche i cervelloni che hanno contribuito a far nascere il nuovo mostro, come Geoffrey Hinton il quale ha lasciato Google lanciando un grido d’allarme. La “mente estesa” è un concetto sviluppato nel 1998 da due pensatori americani, Andy Clark e David Chalmers, in sostanza il pensiero non si chiude nell’io, ma si protrae all’esterno: gli strumenti usati per agire sono la sua proiezione più evidente. ma con l’intelligenza artificiale l’oggetto si sostituisce al soggetto come mai accaduto prima. Per usare una metafora terra terra, vuol dire darsi martellate in testa. Sarà davvero così? In un ampio articolo l’Economist mette in dubbio il potenziale negativo dell’IA e invita a guardarci attorno senza paraocchi.
L’innovazione sarà meno distruttiva di quel che si dice. Potrebbe diventare il driver di un nuovo ciclo di sviluppo, quello che molti vanno cercando con la lanterna da quando internet si è estesa a tal punto da ridurre la sua originaria forza propulsiva. In realtà, nessuna rivoluzione industriale è dovuta a un solo fattore, nemmeno la prima rivoluzione, sottolinea l’Economist. Non va sottovaluto certo il ruolo del telaio meccanico, delle ferrovie, dell’elettricità, ma il loro potenziale si è sviluppato e diffuso in seguito a una serie di altri fattori economici, sociali, culturali, politici. I cinesi avevano la polvere da sparo, ma la usavano per i fuochi d’artificio, gli occidentali per i cannoni. Una volta che ci siamo riconciliati con la storia, torniamo al presente. Grazie all’Ia i ricchi diventeranno ancor più ricchi, si dice. Goldman Sachs calcola che potrebbe accrescere i profitti di 430 miliardi di dollari se venisse utilizzata dal miliardo e centomila tecnici e impiegati nel mondo intero, con un aumento dal 12 al 14 per cento del prodotto lordo, non proprio un gran balzo. D’accordo, ma nascerà un altro gigantesco monopolio, quello di OpenAI, il nuovo Big Brother. Secondo l’Economist è più probabile che una serie di imprese medio grandi saranno in concorrenza l’una con l’altra anche perché si tratta di una innovazione che evolve continuamente. E i maggiori vantaggi non andranno alle aziende che sviluppano l’IA, ma a quelle che sapranno utilizzarla al meglio. Certo, il vero salto di qualità sarà l’applicazione della logica quantistica e oggi i quantum computer hanno costi e rischi proibitivi, però era così anche per i grandi calcolatori fino all’arrivo dei pc.
Sì, ma che ne sarà di noi che usiamo la mente naturale, più o meno estesa? Una ricerca di OpenAi prevede che potrà esserci un impatto su appena l’8 per cento della forza lavoro americana. La fonte è quanto meno di parte, tuttavia Edward Felton della università di Princeton arriva a conclusioni non molto diverse. Ad essere investiti saranno soprattutto i contabili, i servizi legali, le agenzie di viaggio, poi gli insegnanti di lingue, i geografi, persino i poliziotti, quelli che stanno in ufficio. “Ma immaginatevi cosa accadrebbe a un governo che volesse sostituire agenti e professori con l’IA”, ironizza l’Economist. Entrano in campo così gli “anticorpi” politico-sociali, senza ignorare la regolazione che sarà sempre più occhiuta. E l’Italia ha fatto da battistrada, ricorda il settimanale. Secondo uno studio dell’American Labour Statistics, in questi anni le occupazioni considerate a rischio a causa delle nuove tecnologie “non hanno mostrato nessuna tendenza che porti a una rapida perdita del posto di lavoro”. In interi comparti le mansioni cambieranno, come è sempre accaduto: il 60 per cento dei lavori odierni non esisteva nel 1940. Anziché demonizzarla, c’è da sperare che l’IA sia davvero la molla del prossimo ciclo di sviluppo perché è la crescita che crea occupazione ed è la recessione che la distrugge, non la tecnica. Chissà se a metà del secolo un premio Nobel non arriverà a questa stessa conclusione, come è successo per i due secoli scorsi, da quando la Jenny ha trasformato i tessitori di Manchester.