l'analisi
Il dossier innovazione che serve davvero al governo
Il furore regolatorio e i settori che invece chiedono apertura. Perché gli interventi previsti dal cosiddetto “dl Asset” sono indicativi del modello di capitalismo un po’ parrocchiale di questo esecutivo
"Made in Italy”, ma non “Managed in Italy”. Al netto dello sciagurato autogol sui metafisici extraprofitti bancari, il grosso degli interventi previsti dal cosiddetto “dl Asset” sono indicativi del modello di capitalismo un po’ parrocchiale, da “casa e bottega”, che pervade la cultura economica del governo. Insieme a provvedimenti pensati per attirare capitali esteri e semplificare le scelte di investimenti industriali in Italia, infatti, troviamo rigurgiti di dirigismo statalista e populismo balneare. Il furore regolatorio che spinge il governo a pensare di poter determinare a tavolino non solo i prezzi al consumo di singoli beni e servizi – prima energia e carburanti, poi i generi alimentari, e ora il prezzo dei voli o dei taxi all’uscita della discoteca, per tacere degli interessi sui conti correnti bancari – ma anche il livello d’inflazione, mal si concilia con le intenzioni di rassicurare sull’attrattività del sistema paese. La concezione degli interventi è chiara: venite pure a produrre in Italia, ma alle condizioni dettate dalla politica.
Il governo, insomma, pur razzolando benino sulle questioni geopolitiche, continua a predicare malissimo il proprio verbo nazional-populista sui temi economici. Come lo scorpione della favola di Esopo, la cultura politica della maggioranza di destra rimane intrisa di sovranismo identitario e non riesce a evitare di mordere, uccidendola, la rana del pragmatismo di stampo europeo. Nella controversia sulla carenza del servizio taxi, il ministro Adolfo Urso ha candidamente ammesso che la linea politica del governo è “contro le multinazionali”; il caso Uber è paradigmatico: invece di favorire la concorrenza e sfruttare le economie di scala tipiche delle piattaforme tecnologiche, il governo punta a difendere la frammentazione e l’inefficienza delle rendite concessorie locali. Nel testo di un decreto che definisce “tariffe” da sottoporre a vincoli anche i prezzi dei voli di compagnie internazionali si coglie in filigrana il malcelato disprezzo per i meccanismi di mercato, la convinzione che il prezzo sia non un indicatore delle preferenze degli attori economici ma una forma patologica di speculazione che va sottomessa al controllo della politica.
E’ un’evidenza da decenni che le condizioni legali, burocratiche e istituzionali disincentivano gli investimenti industriali in Italia: lo mostrano gli indicatori dell’OCSE e dell’Unione europea, nonché le classifiche sulla competitività internazionale, che vedono l’Italia dietro alla gran parte dei principali paesi europei proprio per gli ostacoli, diretti e indiretti, frapposti dallo Stato all’innovazione e allo sviluppo. Il flusso netto di investimenti esteri in Italia nel 2022 è stato del 1,6 per cento del Pil, in recupero rispetto al crollo dovuto al Covid (-1,2 per cento nel 2020 e 0,9 per cento del 2021), leggermente meglio della Germania (1,2 per cento nel 2022, ma 2,3 per cento nel 2021), tuttavia sempre in netto ritardo rispetto a Francia (3,5) e Spagna (2,8) e in generale rispetto alla media Ue (2,5 per cento). Fonte World Bank, 2023. Non solo gli investimenti esteri non tengono il passo con il resto d’Europa, ma addirittura si assiste a una vera e propria fuga delle poche grandi imprese nazionali dalla giurisdizione italiana: nell’ultimo anno, oltre ai 15 delisting dalla borsa Euronext di Milano (in continua crescita dal 2016, tra gli ultimi casi va segnalato anche quello di CNH), non controbilanciati dalle IPO (solo 3 nel 2022), è preoccupante il segnale che arriva dai trasferimenti all’estero delle sedi legali di grandi imprese italiane. Hanno recentemente spostato la propria sede legale fuori dall’Italia aziende come Brembo, Campari, Cementir, Media for Europe (Mediaset) e persino Ferrari, seguendo in ciò le precedenti scelte di Exor e dell’ex gruppo Fiat. Anche il crescente ricorso al “golden power”, pur legittimo in casi che minacciano la sicurezza nazionale, costituisce fattore che aumenta il livello di discrezionalità politica – quando non di mero arbitrio – percepito dagli investitori.
Di fronte a questi fatti, la risposta dovrebbe essere strutturale e non emergenziale. Invece si introduce con decreto d’urgenza il commissario straordinario che supporta gli investimenti “strategici”. Ben venga almeno tale intenzione del governo, nelle more di una sempre annunciata e mai realizzata azione di riforma. Tuttavia, è l’ammissione che servono sempre interventi d’emergenza perché i meccanismi ordinari a supporto delle imprese non funzionano e che i criteri di investimento sussidiati sono quelli decisi dalla politica (nella bozza di decreto, quelli sopra un miliardo di euro e solo nei settori tecnologici decisi a tavolino dal governo).
L’idea stessa di intervenire per decreto legge in un ambito, come quello della politica industriale, che dovrebbe richiedere un approccio basato su solide analisi economiche e robuste valutazioni d’impatto a medio termine, è la cifra dell’approccio superficiale che informa le scelte della politica in questo campo. Anche la revisione degli interventi del Pnrr proposta dal ministro Fitto, per quanto comprensibile e giustificata nel merito, è risultata tardiva e poco supportata da dati e da previsioni verificabili.
Eppure, i fattori di attrattività per gli investimenti internazionali non mancherebbero: il costo del lavoro in Italia, pur essendo tra i più tassati al mondo, rimane in termini assoluti competitivo rispetto ai principali paesi europei: secondo Eurostat, per le imprese sopra i 10 addetti (escludendo quindi le microimprese), l’Italia ha un costo orario del lavoro del 29 per cento inferiore alla Francia e del 27 per cento inferiore alla Germania. Anche il rafforzamento dei legami atlantici, portato avanti pubblicamente da Giorgia Meloni e più silenziosamente da Guido Crosetto, è cruciale in tutti i settori fondamentali per la competitività di lungo termine dell’economia italiana. Per quanto possa dispiacere a qualche anima bella dell’irenismo globale, un ritrovato legame industriale con gli investimenti nell’ecosistema della difesa e della sicurezza (inclusi quindi i settori individuati nel dl Asset, quali microelettronica, cybersicurezza, intelligenza artificiale, tecnologie dell’aerospazio, ecc.), oltre che necessario nel nuovo contesto geopolitico, è fondamentale per le ricadute che ha sull’economia nel suo complesso. Anche qui, l’opera del governo sembra la tela di Penelope: ciò che viene tessuto di giorno, con il pur positivo supporto a favore della ricerca in ambito elettronico, viene disfatto di notte, cancellando dal decreto – all’ultimo momento e in spregio alle norme europee oltre che ai principi scientifici – la rimozione dei vincoli alle emissioni elettromagnetiche per le reti mobili di nuova generazione. Tuttavia, anche per gli investimenti diretti esteri, tanto ricercati a voce quanto respinti nei fatti con interventi fiscali sguaiati e autolesionisti – i posti di lavoro si pesano e non solo si contano. La quota di valore aggiunto per addetto non è infatti omogenea: il salario medio di un operaio manifatturiero resta notevolmente inferiore allo stipendio di un “knowledge worker” del terziario avanzato. Purtroppo, le scelte del governo spingono sì ad aprire stabilimenti produttivi (il “made”) in Italia, ma de facto contribuiscono ad espellere i team di governo aziendale (il “managed”). Se la prassi politica prevalente è da una parte usare sussidi fiscali per attirare posti di lavoro in fabbrica, ma dall’altra continuare a sbandierare il dirigismo populista, con il risultato di far fuggire i centri direzionali delle grandi aziende e di azzoppare il sistema bancario nazionale, l’orizzonte strategico è competere con il nord Africa, non con i maggiori paesi europei.