la storia
Un'azienda israeliana vuole trasformare il giornalismo con l'intelligenza artificiale
Avatar, notizie, più tempo per le storie, spazio sui social. ACT News crede che per risollevare l’editoria bisogna partire dall’IA. I due fondatori ci raccontano come
La reporter digitale recita “Everything you need to know”, annuncia i servizi e si comporta in modo così naturale da riuscire a ingannare persino sua madre (quella della controparte reale). Ma l’avatar, a cui manca (volutamente?) un po’ di carisma, è solo la parte iniziale. Grazie all’intelligenza artificiale applicata all’editoria, chiunque potrà generare un telegiornale in qualsiasi lingua e trasmetterlo via social in una manciata di minuti, con qualità certificata e garantita dai migliori giornalisti e dalle celebrity delle news. Lo garantiscono Miri Michaeli e Moshe Klughaft, fondatori di ACT News, azienda israeliana con un profilo TikTok da 18,5 mila follower che si definisce la prima rete di notizie al mondo completamente basata sull’IA. Da una settimana le notizie in pillole vengono rilasciate con criterio piuttosto imperscrutabile sui social media ogni giorno, più volte al giorno. Sia sul social più popolare tra Millennials e Gen Z sia su Instagram, anche se con un profilo molto meno seguito (3 mila follower) e reel con visualizzazioni che passano da poche migliaia ad alcuni milioni.
Tuttavia, nonostante una redazione di cinque reporter (due dei quali sono estensioni digitali di giornalisti israeliani famosi, Amit Segal e la stessa Miri Michaeli, mentre gli altri sono unicamente avatar), più che davanti a un canale di news ci si sente immersi in una demo di un’azienda high tech di intelligenza artificiale in cerca di investimenti. “Sì, cerchiamo investitori che vogliano fare soldi risanando il mondo dell’informazione”, hanno spiegato al Foglio i due partner in affari. “Siamo come la Tesla per i media – insiste Moshe Klughaft – Non sostituiremo le automobili ma salveremo il settore”. Parla poco, Klughaft. O comunque meno di Michaeli, che da esperta presentatrice tv di morning show, lo fa di mestiere. E quando si inserisce nella conversazione, predilige concetti sintetici, come se volesse suggerirti l’attacco per il pezzo che scriverai su ACT News o uno slogan elettorale convincente. Tipo: “Ogni giorno, per un telespettatore che muore, ne nasce uno nuovo dei nostri”. Klughaft è un consulente strategico e responsabile di campagne elettorali per leader e partiti politici in Israele (da Shimon Peres, passando per Benjamin Netanyahu, a Naftali Bennett) e oltre (Georgia, Romania, Germania, Austria, Kosovo). Ricorda, lo stratega politico, che il suo primo incarico all’estero fu proprio in Italia, al fianco di Corrado Passera, candidato alle amministrative di Milano del 2016, poi ritiratosi dalla corsa per appoggiare Stefano Parisi nella sfida a Beppe Sala. Lo zampino di Klughaft si intravede eccome se si vanno a ripescare gli articoli scritti all’avvio della campagna elettorale, definita allora un po’ “ambrosiana” e un po’ “americana”. La sede era un open space allestito con palloncini blu, mappe un po’ ovunque e slogan motivazionali sparsi su post-it. Oggi Klughaft ha sposato la causa del futuro dell’informazione da salvare. L’intuizione iniziale è stata spostare le notizie dalla televisione “in declino” ai social media dove, se si intercetta il target, si pesca a strascico. “Stavamo cercando la prossima grande rivoluzione ma sentivamo che qualcosa ancora ci sfuggiva”, racconta Michaeli. “Finché abbiamo capito che per rafforzare il giornalismo dovevamo trovare il modo di salvare le aziende che producono informazione. Ecco come siamo arrivati a un notiziario generato dall’intelligenza artificiale e presentato da reporter digitali”. Più contenuti in meno tempo e a costi inferiori. Ma senza abdicare a qualità e controllo. Insomma – promettono – nessuno farà la fine di Salma Hayek nell’episodio di Black Mirror.
Il tempo, è innegabile, gioca un fattore chiave specialmente nel giornalismo televisivo. Nell’esperienza della conduttrice tv israeliana, un reporter dedica tra il 50 e il 70 per cento del suo tempo a notizie di attualità. Poi deve spostarsi per raggiungere lo studio e, prima di poter andare in onda, deve sottoporsi a trucco e parrucco. Tempo prezioso, sottratto all’approfondimento delle notizie in esclusiva, al giornalismo investigativo. L’avatar invece nasce pronto, truccato, vestito e microfonato. Basta pigiare un tasto. “In sostanza – riassume Michaeli con un misto di tikkun olam (il concetto ebraico di “riparare il mondo”) e chutzpah (espressione in slang ebraico intraducibile che descrive, nel business soprattutto, la caratteristica israeliana di essere al tempo stesso audaci e arroganti) – restituiamo il tempo necessario ai reporter per tornare a svolgere il lavoro giornalistico, che è l’obiettivo originale del nostro mestiere”.
Da quando Amit Segal, il volto più influente dell’informazione in Israele, utilizza la propria estensione digitale, in appena due giorni ha potuto realizzare tre servizi su questioni interne ed estere e un servizio in arabo. “Questo è un altro vantaggio – sottolinea la sua collega (sia reale sia digitale) Michaeli –Come in una Babele, non serve più sapere le lingue. Questa barriera è caduta e ciascuno di noi può diventare un reporter internazionale”.
Nel circolo virtuoso che i due imprenditori intendono avviare, “rafforziamo il giornalismo con la produzione di contenuti migliori, che porteranno più spettatori, quindi più soldi con cui sostenere ulteriormente il giornalismo”. Oren Tsur, professore all’Università Ben Gurion del Negev che si interessa dell’intersezione tra elaborazione del linguaggio naturale e dinamiche sociali, esprime qualche dubbio rispetto alla panacea individuata da ACT News per la crisi dell’editoria e dell’informazione. “Probabilmente è un ottimo business. La qualità della tecnologia e della produzione, cioè l’aspetto e il comportamento dell’avatar, è molto interessante. Non riuscirei facilmente a distinguere la persona vera dalla controparte digitale. Ma – mette in guardia l’esperto di intelligenza artificiale – vedo anche i pericoli. Perché la semplicità con cui si possono produrre contenuti generati da modelli di intelligenza artificiale e riprodurre avatar, è potenzialmente alla portata di chiunque, là fuori. Anche se i giornalisti di questa azienda specifica, ACT News, approvano scrupolosamente qualsiasi contenuto, altre agenzie di notizie potrebbero adottare standard di verifica meno elevati”. Qui non si tratta solo di risollevare l’editoria in crisi. Il tema è il modo in cui noi, come società di consumatori di informazioni, percepiremo l’informazione in generale. Non solo le notizie ma tutto quello che leggiamo, vediamo e di cui facciamo esperienza.
“Che poi – continua Tsur al Foglio – anche su questo controllo capillare resto un po’ scettico. Immagino che i reporter scorrano il testo, ma controllano veramente ogni singola frase come se l’avessero scritta loro stessi? Sono in grado di individuare quelle piccole sfumature, le incoerenze e le ‘allucinazioni’ dell’IA? Non che si possa evitare questa evoluzione ma dobbiamo essere consapevoli dei pericoli. Insomma vedo più di qualche pendio scivoloso”.
Doron Friedman è professore alla Sammy Ofer School of Communications, all’università privata IDC di Herzliya, e responsabile dell’Advanced Reality Lab, dove si studia il ruolo sempre più attivo delle tecnologie digitali nella vita umana, in una prospettiva multidisciplinare (dalla comunicazione umana alla neurofisiologia, dalla psicologia all’informatica, dall’arte all’industria). “Negli ultimi anni le capacità dei modelli linguistici LLM hanno sorpreso la maggior parte degli esperti, me incluso”, ammette Friedman. “Questi modelli avranno un impatto su molte professioni. Non sostituiranno le persone ma le aiuteranno a essere più efficienti e a risparmiare tempo nei compiti minori”. Anche nel giornalismo molti ruoli potranno essere automatizzati parzialmente o completamente. Allora, quale segmento è bene automatizzare? La scrittura dell’articolo o la produzione del video? L’editing o l’avatar? Tutto è già possibile. Non tutto è facile. “I modelli fotorealistici sono ancora piuttosto costosi e permangono molte sfide tecniche. Non so se i mezzibusti digitali possano essere davvero promettenti – dice il professore – Le aziende e le startup espanderanno la tecnologia in base alle reazioni del pubblico. E presto o tardi troveranno la formula che funziona”.
Posto che il risparmio di tempo e denaro possa spingere un editore a investire in un giornalismo più di approfondimento e nell’assunzione di un maggior numero di reporter, che ne sarà della formazione? Del resto Miri Michaeli appartiene alla generazione per cui la gavetta includeva ancora portare il caffè ai presentatori. Se sarà l’intelligenza artificiale ad automatizzare la scrittura delle notizie e il montaggio dei servizi giornalistici, le nuove leve impareranno dall’IA? “Ricordo le interminabili attese con la mia telecamera sotto casa di un politico per ottenere un commento. Quei giorni – racconta la reporter israeliana – non esistono più. Non so come dirlo ma è così: oggi i giovani, più di qualunque altra cosa, vogliono andare in video sullo schermo che portano nel palmo della mano. E possono farlo subito, con la diretta su Instagram o TikTok. Ma essere un bravo storyteller non è tutto. A farsi strada saranno i giornalisti che scoveranno le storie migliori. E cosa sia una buona storia, lo impareranno sul campo. Al di là dell’intelligenza artificiale, gli editori dovrebbero chiedersi chi sono i giornalisti di prossima generazione”. “Se il settore non vira in tempo, la prossima generazione di giornalisti tv sarà ininfluente, perché le tv collasseranno”, commenta Klughaft. “Perdere tempo su fatti che tutte le testate stanno coprendo allo stesso modo ti trattiene dall’andare in cerca di storie più emotive. Chi non si adatta alla realtà che cambia, scompare. Come Kodak o altre aziende che oggi non esistono più”. In conclusione, dice apodittico Klughaft: “Proprio l’intelligenza artificiale consentirà ai giornalisti di essere umani”.