Biden & Chips
La corsa dell'America per stare al passo con l'Asia sui semiconduttori
C'è una cosa che accomuna Ai, le auto elettriche, l'energia rinnovabile, l'industria spaziale e quella della difesa: i microchip. La Silicon Valley vuole continuare a essere il laboratorio del nostro futuro, ma ha alcuni problemi legati alla "Legge Moore" e al Chips Act voluto da Joe Biden
Cosa hanno in comune l’intelligenza artificiale, le auto elettriche e quelle con guida autonoma, l’energia rinnovabile, le biotecnologie, l’industria spaziale e quella della difesa? Due cose. La prima è che sono tutti ambiti tecnologici a cui è affidato il futuro dell’umanità. La seconda è che non si può fare niente, in nessuno di questi settori, senza partire dai mattoncini di base che mandano avanti tutto: i microchip. E nel mondo dei semiconduttori è in corso una nuova rivoluzione i cui esiti sono legati non solo alla ricerca e all’innovazione, ma anche alla geopolitica, al mercato del lavoro e in ultima analisi anche alle prossime elezioni per la Casa Bianca.
C’è una definizione tecnica che occorre cominciare a tenere d’occhio anche se non si è addetti ai lavori, perché sarà decisiva: advanced chip packaging, cioè nuove metodologie di “imballaggio avanzato” per i microchip.
La Silicon Valley vuole continuare a essere il laboratorio del nostro futuro, dopo che dagli anni Sessanta del secolo scorso, con il silicio, ha disegnato il nostro presente. Ma ha un paio di problemi non da poco con cui fare i conti: la “legge di Moore” su cui è stata costruita non funziona più come un tempo e per risolvere il guaio bisogna sapere “impacchettare” i semiconduttori, un mestiere che per ora sanno fare quasi esclusivamente in Asia. Rispondere a questa sfida è un dilemma strategico che è arrivato fino all’attenzione della Casa Bianca e sul quale è sceso in campo lo stesso presidente Joe Biden, che ora vuol provare a trovare una soluzione con un intervento miliardario per costruire negli Usa fabbriche avanzate in questo campo. La sfida con la Cina nei prossimi anni si giocherà anche e soprattutto su questo terreno e non è un caso che Xi Jinping nelle scorse settimane, passando da San Francisco, abbia parlato più di semiconduttori che di Ucraina o medio oriente.
Un paio di anni fa l’amministrazione Biden ha lanciato il Chips Act, un programma da 50 miliardi di dollari destinato a finanziare la realizzazione di nuovi impianti di produzione di semiconduttori negli Usa (39 miliardi) e a incentivare la ricerca scientifica nel settore (11 miliardi). Un provvedimento che è figlio della crisi dei chip che si è creata durante la pandemia, quando la catena globale di produzione e distribuzione della preziosa tecnologia era entrata in crisi, per effetto dei lockdown, del boom di acquisti di prodotti informatici da parte di miliardi di persone costrette a stare a casa e della rottura delle catene di approvvigionamento create all’apice della globalizzazione e basate su decentramento della produzione e facilità di traffico di container. Parallelamente si è mossa anche l’Europa, con un proprio Chips Act che punta a portare dal 10 al 20 per cento la fetta del mercato dei semiconduttori basata nel nostro continente. La guerra in Ucraina, i nuovi scenari geopolitici e il rafforzamento dell’asse Atlantico hanno poi portato Usa e Ue ad agire di concerto, di fronte alla constatazione di una debolezza dell’occidente in un settore strategico come questo, dove gran parte della produzione è concentrata in Asia e rischia di finire sotto la sfera d’influenza cinese.
I due “Act” però stentano a decollare e incontrano molte difficoltà. Negli Usa si è cominciato a parlare di un’altra esigenza a cui dare la priorità, che in queste ultime settimane è finita al centro di ogni discussione da parte degli addetti ai lavori: quella di favorire l’advanced packaging. Adesso il ministero del Commercio dell’amministrazione Biden ha risposto con una mossa a sorpresa, annunciando che da gennaio tre miliardi del pacchetto da 50 del Chips Act saranno dirottati su un nuovo progetto battezzato National Advanced Packaging Manufacturing Program. Il tentativo è quello di provare a cambiare radicalmente lo scenario attuale che vede la Silicon Valley come leader mondiale del design dei chip (l’85 per cento della progettazione è fatto in America), ma con solo il 12 per cento del controllo della produzione e un misero tre per cento quando di tratta di “packaging”.
Vale la pena cercare di capire di cosa si tratta, ma bisogna partire da lontano.
Nel 1965 Gordon Moore, un giovane genio dell’informatica che lavorava per la Fairchild, l’azienda leader nel settore dei transistor, pubblicò sulla rivista “Electronics” un articolo destinato a passare alla storia. Vi si sosteneva che il numero di transistor che si potevano riunire su un unico microchip era pressoché raddoppiato ogni anno fino ad allora e che la tendenza sarebbe proseguita per almeno un altro decennio. Un professore della Caltech la definì “legge di Moore” e da allora è diventata un caposaldo non solo nella ricerca scientifica sui semiconduttori, ma anche nella produzione industriale nel campo dell’elettronica. La profezia di Moore in realtà si è rivelata assai più solida di quanto immaginava l’uomo che l’aveva pronunciata. Ben presto è apparso evidente che il mondo dei microchip era capace di raddoppiare le proprie prestazioni ogni diciotto-ventiquattro mesi, contemporaneamente facendo diminuire i costi di produzione. Un megabyte di memoria costava circa 75.000 euro all’inizio degli anni Settanta e la legge di Moore ha correttamente previsto la riduzione dei costi progressiva da allora e per decenni, fino all’epoca attuale in cui un mega costa meno di 0,01 euro.
Per raddoppiare ogni due anni il numero di transistor capaci di essere ospitati su un circuito integrato, si è proseguito a sviluppare tecniche sempre più avanzate che hanno portato a operare su scale sempre più ridotte, nell’ordine dei micron. È un processo che va avanti da mezzo secolo, ma ultimamente i designer del silicio si trovano alle prese con limiti che stanno decretando la fine della “legge”. Gordon Moore è morto lo scorso marzo alle Hawaii, dopo aver fondato nel frattempo Intel ed essere stato riconosciuto come uno dei più importanti pionieri nel campo dei semiconduttori. Anche lui sapeva che prima o poi l’elettronica doveva trovare altre strade per stare al passo con la potenza di calcolo richiesta dall’èra digitale, dall’avvento dell’intelligenza artificiale e di una società di tecnologia avanzata come quella odierna.
Adesso i progettisti del mondo dei chip puntano alle nuove tecnologie di “impacchettamento” e alle connessioni elettroniche avanzate, per cercare di ottenere più efficienza e minori costi. Quello che sta avvenendo si potrebbe paragonare all’evoluzione dello sviluppo di una città. Costruire un chip è un po’ come costruire una casa, con fondamenta, pilastri di cemento, vari piani e stanze disegnate secondo i diversi utilizzi a cui sono destinate. Finché in città c’è disponibilità di spazi, si possono creare nuovi quartieri lavorando sulle reti (elettrica, fognaria, delle telecomunicazioni, stradale) per connettere le varie case. Ma quando lo spazio scarseggia, si cominciano a costruire grattacieli, condomini più complessi e avanzati, edifici più alti e con nuove tecnologie. Il nuovo “packaging” nel settore dei chip fa qualcosa di simile, passando da disegni in 2D a quelli in 3D, costruendo nello stesso spazio chip multistrato con maggiori connessioni sempre più miniaturizzate (ci si muove nell’ambito dei nove micron, cioè un quindicesimo delle dimensioni di un capello umano).
La Silicon Valley e l’Europa adesso si stanno accorgendo di avere ottimi architetti e ingegneri, ma mancano gli operai per le nuove costruzioni. La manifattura e gli imballaggi sono un monopolio asiatico, soprattutto di Taiwan e della Corea del sud. Il leader mondiale nel campo dell’advanced packaging è la Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), seguita dalla coreana Samsung. Intel è terza se si contano i brevetti che possiede in questo settore d’avanguardia, nel quale ha iniziato a investire pesantemente solo dal 2015, ma non ha gli stabilimenti per produrre. E ora deve inseguire le rivali asiatiche.
Samsung da anni investe in ricerca in questo campo, ma è solo dal dicembre 2022 che ha creato una divisione dedicata, dopo essersi resa conto che era l’ambito su cui scommettere. Tsmc è più avanti di tutti, ma i coreani stanno rimontando e un mese fa hanno annunciato che nel 2024 sveleranno una nuova tecnologia 3D, battezzata Saint (Samsung Advanced Interconnection Technology) che promette di essere la risposta alla domanda di chip avanzati che arriva soprattutto dal mondo dell’intelligenza artificiale.
L’amministrazione Biden adesso prova a correre ai ripari anche per preoccupazioni di carattere geopolitico. Taiwan è un’isola amica e con forti legami con gli Usa, ma dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin tutto ciò che la riguarda viene visto in una luce diversa dagli americani. Se la Cina bloccasse Taiwan, o peggio ancora la invadesse, l’intera industria tecnologica americana (compresa quella militare) si troverebbe a corto di chip di nuova generazione, che finirebbero sotto il controllo cinese.
È anche per questo che la Casa Bianca ha provato a “trasferire” un pezzo di Taiwan in America. Un anno fa Biden è volato in Arizona per dare il via a Phoenix ai lavori per la realizzazione di un mega impianto di Tsmc che dovrebbe specializzarsi anche in “packaging” avanzato. Il presidente in quell’occasione ha lodato la visione di Morris Chang, il fondatore di Tsmc, che ha creato il modello di produzione integrato a Taiwan e ha cresciuto dal 1987 a oggi un paio di generazioni di tecnici superspecializzati.
Biden nel suo discorso a Phoenix ha fatto capire quanto la scommessa sia anche politica, lodando il fatto che Tsmc apra un impianto destinato a dar lavoro a tanti americani in uno stato, l’Arizona, che è decisivo per la campagna elettorale 2024 del presidente. Non è solo una questione legata all’Arizona, perché si tratta per Biden di mandare un messaggio ai sindacati americani, che sono la sua base elettorale in tanti stati-chiave come Michigan, Wisconsin, Ohio o Pennsylvania. “Le aziende come Tsmc fanno bene ad assumere lavoratori del sindacato – ha detto nel suo discorso a Phoenix – per un motivo molto semplice: sono i migliori tecnici al mondo”.
Il problema è che la realtà si sta rivelando diversa. Giorni fa Mark Liu, il presidente di Tsmc, in un incontro con investitori e analisti ha dovuto ammettere che la fabbrica di Phoenix dovrà rinviare al 2025 l’apertura per un semplice motivo: “Ci mancano i lavoratori qualificati”. Produrre microchip è un’attività complessa e gli americani non la sanno fare. Per cercare di formarli, Tsmc sta mandando tecnici da Taiwan ad addestrare i lavoratori dell’Arizona.
Il caso di Phoenix ha aperto un altro dibattito importante, con forti ramificazioni politiche. Il punto è che se l’America vuol cercare di recuperare terreno sul fronte dei microchip, deve aprirsi a una fortissima immigrazione di personale specializzato da reclutare in tutto il mondo. Non basta investire miliardi nella ricerca: la Silicon Valley può essere all’avanguardia nel design di ogni tipo di dispositivo elettronico, ma non lo sa costruire e impacchettare secondo le nuove tecnologie e non può più contare sulla legge di Moore per tenere il passo.
Ecco quindi che cominciano a girare negli Usa proposte come quella dell’Economic Innovation Group, un centro studi che riunisce economisti e imprenditori del settore tech e ha tra i propri fondatori Sean Parker, uno dei padri di Facebook. L’idea che propongono è quella di varare un “Chipmakers Visa”, un visto speciale destinato ai costruttori di chip, che ne faccia entrare subito diecimila negli Usa con un percorso accelerato per la cittadinanza americana. In un paese attualmente spaccato sul tema dell’immigrazione, scegliere questa strada aprirebbe sicuramente un intenso dibattito politico, vista la posizione dei repubblicani dell’ala di Donald Trump che puntano a sigillare sempre di più le frontiere.
Andando a cercare tecnici in giro per il mondo, soprattutto in Asia, l’America spera di sottrarli alla concorrenza cinese e di poter fare uno sforzo analogo a quello avvenuto in passato in altri campi. Qualcosa di simile a ciò che fu il Progetto Manhattan per lo sviluppo della bomba atomica, studiata da immigrati come Enrico Fermi, o il programma della Nasa per battere i sovietici nella corsa allo spazio.
Del resto, anche quella della Silicon Valley è sempre stata una storia di immigrati, come dimostrano i ceo di origini indiane che guidano attualmente alcune delle più grandi società tech californiane. Lo è stata fin dagli inizi negli anni Sessanta, quando tra Palo Alto e San Francisco si muovevano personaggi come l’italiano Federico Faggin, uno degli inventori del primo microprocessore. O come l’ebreo ungherese András Gróf, sfuggito prima ai rastrellamenti nazisti e poi al regime comunista per emigrare negli Usa, dove aveva imparato da solo l’inglese e si era laureato in ingegneria chimica con il suo nuovo nome americanizzato: Andrew Grove, l’uomo che insieme a Moore e Bob Noyce avrebbe fondato Intel e cambiato per sempre la Silicon Valley e la storia dell’elettronica.