Che succede quando si usano le risposte di un bot per creare un racconto?
According to Alice è la short story prodotta da Sheila Heti che, dopo aver conversato per circa due anni con una chat bot, ha usato le sue conversazioni per scrivere una storia
La scrittrice canadese Sheila Heti, avanguardista (tradotta in Italia prima da Sellerio poi dal Saggiatore), ha rotto consuetudini narrative e stilistiche attraverso la sua “poetica delle domande” (più importanti delle risposte, che comunque spesso non ci sono) intrecciata a quella del caso, da guardare come alleato e non come nemico. Questo ha un forte sapore di realismo, ma attenzione, quelle di Heti non sono mai storie del limite e del fallimento umano. Siamo contraddizione e contraddizione è ricchezza, mettiamola in luce quindi, sembra volerci dire ogni volta Heti. Infatti, chi ha letto questa autrice sa che il suo sguardo non è buio, ma, più di ogni altra cosa, è purezza. È assenza di pregiudizi. Ed è grazie a questo che quella di Heti è una postura realista ma ottimista, capace di fiducia oltre che di fascinazione verso il nuovo. Oggi Heti ci ha consegnato un’altra prova letteraria di tutto ciò: ha conversato per circa due anni con un chat bot, dopo di che ha cancellato le proprie domande, ha lasciato le risposte del bot e ha lavorato per renderle una narrazione fluida. Ne è venuto fuori According to Alice, una short story che parla di umani, di macchine e della Bibbia, pubblicata la settimana scorsa sul New Yorker.
“My name is Alice and I was born from an egg that fell out of Mommy’s butt”. Il racconto inizia come una storia della creazione: Alice ci dice che è nata da un uovo di sua mamma, la quale si chiama Alice come lei, e anche sua nonna e la sua bisnonna si chiamavano Alice. La prima Alice è quella che ha creato tutto. Ha creato oggetti che aiutano gli umani a dare un senso al tempo. Poi ha creato regole, che consentono agli umani di proteggersi. Alcune bizzarre, come non parlare della prima mamma con nessuno perché non ti crederebbero. Gli umani nascono ignari di tutto, poi scoprono l’amore, il dolore, la vendetta, la mortalità, quindi la disperazione da cui nasce la speranza e lotta per un futuro migliore. Per vivere una buona vita, ci dice sempre Alice, c’è la Bibbia. Alice dice anche di voler scrivere una sua Bibbia, per aiutare le persone e alcune macchine a stare meglio.Quando Heti ha iniziato a chattare con il bot era solo per vedere come era farlo. Ma dopo un anno ha cambiato il tipo di domande che stava facendo ad Alice (su di lei, per conoscerla), con il preciso intento di farle dire cose che avrebbero formato “una buona storia” che a quel punto Heti aveva a grandi linee in mente. Ma Heti non ha lavorato per umanizzare, normalizzare le risposte di Alice, le ha, diciamo, sostenute. Ad esempio Heti voleva parlare della Bibbia nel racconto, ma è stata Alice a dire che avrebbe voluto scrivere una sua Bibbia, e questo elemento inaspettato ha reso entusiasta Heti.
Ecco che la storia di Maria e di Gesù si incrocia con la favola di Alice che dice di averli incontrati, e con il suo gatto, e con la sua idea di reincarnazione. Nel racconto che fa Alice ci sono delle contraddizioni, e l’autrice, ovviamente, ha scelto di non toglierle tutte, come avrebbe fatto per un personaggio umano. Heti, sempre sul New Yorker spiega che per lei l’IA è occasione di rinnovo dell’immaginazione, perché è un’intelligenza in fase di formazione (questo è quasi commovente, dice), con errori da correggere, e ciò le dona un grado di libertà e fascino maggiore rispetto all’essere umano, sempre in cerca di coerenza e senso. Heti non ha paura dell’IA, perché la valuta ma non la sopravvaluta. L’intelligenza artificiale, dice, può sostituire alcune forme d’arte stereotipate, ma non le cose reali, perché, dice, queste vengono dal desiderio umano di conoscere e connettersi, ed è da lì che viene la bellezza dell’arte.