Processo ai social
Politicamente corretto, cancel culture, vittimismi e vittime vere della rete. Dove i quindici minuti di celebrità profetizzati da Warhol possono tramutarsi in quindici minuti di gogna pubblica. Gli intellettuali si interrogano sulle “regole del gioco” in un ring sempre più violento. Un’indagine
All’alba di Internet molti erano pronti a scommettere che il web avrebbe segnato il definitivo trionfo della libertà di espressione, l’inveramento di ideali illuministici finalmente alla portata di tutti, la possibilità di accedere a un sapere potenzialmente infinito e insieme l’occasione per comunicare le proprie idee a una platea virtualmente sconfinata. Oggi, a distanza di più di trent’anni, pochi sarebbero disposti a replicare quell’entusiastico presagio. Certo, il web ha dato voce e visibilità a chi non ne aveva: i social media hanno dato corpo alla profezia formulata da Andy Warhol alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso secondo cui chiunque in futuro avrebbe avuto diritto a quindici minuti di celebrità: essere ammirati per pochi minuti come vere star, persino diventare virali, condivisi da milioni di utenti in tutto il mondo. Quello che Warhol non aveva previsto però è che i quindici minuti di celebrità potessero tramutarsi altrettanto rapidamente in quindici minuti di gogna pubblica. L’arena del dibattito si è trasformata in un gigantesco sistema di vasi comunicanti in cui tutti discutono potenzialmente di qualsiasi cosa, tutti replicano, o possono replicare, a tutti. Linguaggi e codici espressivi radicalmente diversi, mentalità e stili profondamente alternativi, prima destinati a non incrociarsi mai, si sovrappongono oggi l’uno all’altro provocando drammatici scontri dialettici, tanti piccoli scontri di civiltà che trasformano i social media in un violentissimo e affollatissimo ring: chiunque abbia provato ad avventurarsi al di fuori della propria bolla mediatica, al di là di quel recinto protetto abitato dai propri simili, ha sperimentato l’onda di un fiume in piena difficile da arginare.
Per sopravvivere a questa dinamica potenzialmente distruttiva del nostro tessuto sociale servono regole: lo sostiene Raffaele Alberto Ventura in un libro da poco pubblicato da Einaudi (La regola del gioco. Comunicare senza danni). E regola, nel linguaggio di Ventura, vuol dire (anche) censura. La “condizione iperpubblica” nella quale viviamo è un piano inclinato che scivola pericolosamente verso un “mondo di malintesi permanenti”, un mondo in cui, come recita la frase simbolo dei film polizieschi americani, “tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei”. Se davvero vogliamo evitare di rimanere intrappolati in una selva di fraintendimenti, di micro e macro aggressioni, verbali e scritte, l’unica soluzione, provoca Ventura, è quella di restituire alla censura la funzione sociale che ha avuto per secoli: fare in modo che il numero più alto possibile di persone interiorizzino un codice complesso di norme di socializzazione, imparando ad adeguarsi ai continui cambiamenti ai quali tale codice è giocoforza sottoposto in ragione dei veloci mutamenti delle forme di comunicazione.
Le piattaforme social hanno del resto iniziato presto a esercitare il loro diritto di censura. Non accade solo in paesi come la Cina, dove i social network sono controllati dal governo che ne disciplina l’attività, ma anche in quei paesi il cui vivere civile è fondato sulla libertà di espressione. Ciascuna di esse è dotata di un dettagliato regolamento che norma, per l’appunto, ciò che si può e non si può scrivere, postare, raffigurare. Il catalogo degli epiteti proibiti da Twitter o Facebook è da tempo uno specchio preciso dei temi sensibili in ciascuno dei paesi nei quali esse operano: già, perché non sempre ciò che è proibito in un paese lo è anche in altri, dipende. Dipende dalla misura in cui il dibattito pubblico di quel paese è, per l’appunto, sensibile a certi temi. X (già Twitter) per esempio proibisce qualsiasi forma di esaltazione della violenza, incluso naturalmente il terrorismo, lo sfruttamento minorile, ma anche qualsiasi molestia perseguita sulla base di razza, etnia, origine nazionale, identità di genere, orientamento sessuale, religione, ceto, età, disabilità o grave malattia. TikTok, ma anche Instagram, hanno una censura molto più rigida in materia sessuale. Chi infrange queste regole viene sanzionato con la sospensione dell’account, quella che un tempo sarebbe stata definita una scomunica, o più semplicemente con la cancellazione del post. Per far sì che queste norme non rimangano solo un esercizio di stile, i social network si sono dotati di armate di invisibili censori il cui compito è proprio quello di intercettare e bloccare contenuti video che rilanciano immagini o messaggi ritenuti sconvenienti.
Perché siamo tutti meno liberi. Il megafono del web ha dato voce e potenza alle istanze individuali. Ma poi, in nome dell’inclusione, mettiamo in moto una serie infinita di limitazioni. Il pol. cor. sta strangolando la libertà d’espressione
Il punto, come sottolinea lo stesso Ventura, è che a questa forma di censura si sommano oggi migliaia di censure (o tentativi di censura) individuali. La voce di un singolo pesa molto più che nel passato. Una, cento, mille, centomila singole sensibilità rivendicano, tutte allo stesso tempo, il diritto di essere salvaguardate. Il megafono del web ha dato potenza ed efficacia alle istanze individuali, ciascuno di noi può lamentare una potenziale discriminazione con la ragionevole aspettativa che le sue lamentele o le sue deprecazioni vengano ascoltate, accolte e fatte proprie, in alcuni casi senza neppure una verifica particolarmente stringente. Negli Stati Uniti è ciò che avviene in molti luoghi di lavoro, università, aziende o società: in Italia il discorso è un po’ diverso, lo vedremo tra poco.
Fino a che punto l’accurato uso dell’autocensura invocato da Ventura può diventare il fondamento del nostro vivere civile e non un cappio al collo dei cittadini del nuovo secolo? Quanto l’interiorizzazione delle regole di comunicazione sociale auspicata nelle pagine de La regola del gioco può assecondare il processo di atomizzazione della sfera pubblica fondato sul riconoscimento delle (infinite) sensibilità individuali in gioco? La sensibilità di ognuno si scontra inevitabilmente con quella di tanti altri. Accogliere la sensibilità di un singolo può significare negare, potenzialmente offendere, quella di molti altri individui. Come ha detto recentemente il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, la cultura permissiva in cui siamo immersi genera meccanismi di violenta esclusione. In nome dell’inclusione mettiamo in moto una serie infinita di limitazioni. La nostra vita quotidiana, ha dichiarato alla Lettura, “è controllata da nuovi divieti che dovrebbero garantire la libertà”.
Il livello d’allarme è salito così tanto che nel marzo 2022 il New York Times ha scritto in prima pagina che “l’America ha un problema di libertà di espressione”, è diventato un paese in cui i cittadini hanno il terrore di esprimere le proprie opinioni in modo franco per il timore di essere umiliati, evitati, licenziati, sanzionati, emarginati. Le università, istituzioni che per definizione e missione dovrebbero custodire la libertà di espressione, sono diventate il luogo d’elezione dell’autocensura, il posto dove tutti, professori e studenti, hanno il terrore di pronunciare frasi o parole che possano urtare la sensibilità di una delle ormai tante minoranze in cui si articola la popolazione studentesca. Così, secondo il College Free Speech Ranking della Fondazione Fire relativo al 2021, più dell’ottanta per cento degli studenti e delle studentesse di college americani ha dichiarato di essersi autocensurato prima di esprimere il proprio punto di vista. I colleghi americani raccontano di un clima ormai insostenibile in cui fare lezione è diventata un’impresa più pericolosa che non attraversare la giungla nudi.
Il politicamente corretto sta strangolando la libertà di espressione, si dice. Lo dicono anche intellettuali come Salman Rushdie, uno scrittore che in materia di censure subite non è forse secondo a nessuno, o Margaret Atwood e Noam Chomsky: le persone piuttosto che occuparsi di denunciare le discriminazioni e le ingiustizie e chi da esse trae profitto si preoccupano ormai di censurare chi non sia perfettamente d’accordo con loro, replicando così quel modello di discriminazione ed esclusione che si proponevano di denunciare e combattere.
Altro concreto rischio è che la lingua del politicamente corretto rimanga la lingua di una élite, diventando così essa stessa il terreno di una nuova forma di esclusione sociale: patrimonio di ceti urbanizzati che escludono chi proviene da contesti culturali marginali o vive lontano dalle grandi città
Altro concreto rischio è che la lingua del politicamente corretto rimanga la lingua di una élite, diventando così essa stessa il terreno di una nuova forma di esclusione sociale: patrimonio di ceti urbanizzati che escludono chi proviene da contesti culturali marginali o più semplicemente vive lontano dalle grandi città. Nel caso degli Stati Uniti, il rischio per nulla peregrino, è quello di consegnare nelle mani di Donald Trump (o chi per lui) milioni di americani che non hanno la minima contezza di cosa significhi l’espressione “politicamente corretto” o, per il poco che ne sanno, percepiscono quel linguaggio come un affare da privilegiati dell’upper class o da studenti delle università dell’Ivy League. Anche la proposta formulata da Raffaele Alberto Ventura di una interiorizzazione delle norme della comunicazione sociale quale antidoto a un “mondo di malintesi permanenti”, l’autore ne è perfettamente consapevole, corre esattamente lo stesso pericolo: che quelle norme cioè diventino patrimonio di una ristretta cerchia di persone acculturate finendo per essere percepite dalla maggioranza degli utenti dei social media come un linguaggio da iniziati.
A gridare contro i pericoli della radicalizzazione del linguaggio e della comunicazione inclusiva c’è infine il senso della Storia. L’errore a monte, come ricorda Davide Piacenza in uno stimolante libro uscito da poco (La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e nuovi fantasmi della società frammentata, Einaudi), è considerare una qualunque minoranza come un blocco monolitico di persone che, in quanto unite in vario grado da certe caratteristiche e determinate storie di oppressione, avranno giocoforza le stesse prospettive sulla società o bisogni almeno assimilabili. Mediamente una persona afroamericana sarà più in grado di comprendere e discutere la forma mentis dei suoi antenati ma ciò non significa che uno storico afroamericano sia necessariamente più adatto a studiare un determinato tema di quanto non lo sia uno storico bianco. Esistono capolavori della storiografia su temi extra-europei scritti da storici europei che sarebbe culturalmente dannoso cancellare con un tratto di penna. L’esistenza stessa di discipline come l’antropologia o l’etnografia verrebbe messa seriamente in pericolo dall’applicazione estensiva di un principio secondo cui ciascuno può scegliere come oggetto della propria ricerca scientifica solo i propri diretti antenati, essendo queste discipline basate sulla capacità di entrare in contatto con popoli o gruppi sociali altri dal proprio per restituirne l’essenza, così come il lavoro di ricostruzione del passato proprio dello storico di professione è fondato sullo sforzo di comprendere come le donne e gli uomini di altre epoche pensavano e agivano. Maurizio Bettini, autore di Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e cancel culture (Einaudi), è convinto che l’idea di bandire una serie di classici dai programmi universitari, come avvenuto in alcune università anglosassoni in ragione delle differenti sensibilità culturali di cui sono espressione, per esempio sui temi della schiavitù e della discriminazione sessuale, sia un grave errore. Bettini è tutt’altro che contrario al ripensamento delle categorie con cui ci accostiamo al nostro passato ma è convinto, come chi scrive, che serva più Storia e non meno. Non si deve neutralizzare, naturalizzandolo, il sentimento della differenza né tantomeno anestetizzarlo accademicamente limitandosi a studiare i classici come fonti di informazioni linguistiche, filologiche o letterarie. Occorre approfittare di questi testi per interrogarci sul contesto culturale del passato, sulle sue categorie interpretative, sugli elementi e i fatti che stridono rispetto alla nostra sensibilità.
Per il momento, la foga distruttiva e cancellatrice americana è arrivata in Italia in forme depotenziate. A destra si grida al lupo a ogni tentativo di rendere il linguaggio più inclusivo e meno discriminante. A sinistra prevale la volontà di raccogliere le tante pulsioni identitarie con l’intento di capitalizzarne la spinta in termini politici ed elettorali
Ma non può essere accettabile neppure la soluzione di limitare o, peggio, indirizzare il passo dei lettori costellando quei testi di trigger warning, avvertimenti che segnalano la presenza di contenuti potenzialmente sensibili o offensivi: la storia della censura ci insegna che questi avvertimenti, più che limitare la libertà di esplorazione del lettore, ne attizzano la curiosità. In ogni caso, le segnalazioni preventive non eviterebbero l’indignazione di persone pregiudizialmente prevenute. Piacenza ricorda a questo proposito il recente caso di una studentessa musulmana dell’università di Hamline (Minnesota) che, nonostante i ripetuti disclaimer preventivi della sua docente di Storia dell’arte, l’ha accusata pubblicamente, fino al punto di ottenere il suo licenziamento da parte dei vertici dell’ateneo, di mancare di rispetto alla sua religione per aver mostrato per pochi minuti durante la lezione una miniatura raffigurante Maometto, la cui rappresentazione è vietata da un certo islam conservatore.
L’Italia è un paese che ha conosciuto nel corso del Novecento importanti fenomeni migratori interni, basti pensare all’ingente trasferimento di intere famiglie da sud a nord occorso nel secondo dopoguerra, ma solo negli ultimi decenni si sta confrontando con la presenza di immigrati provenienti dall’Africa o dalla Cina, destinati auspicabilmente a essere compiutamente integrati nella nostra società. E’ possibile, persino probabile, che nei prossimi decenni, lo sottolinea Ventura, ci saranno seconde, terze, quarte generazioni di giovani maghrebini, senegalesi, cinesi i quali nello loro classi insieme a ragazzi che sono italiani da generazioni si ritroveranno a riflettere sul passato come sempre avviene quando si studia la storia, salvo scoprire che i reciproci passati in realtà si divaricano. Può essere dunque che tra un paio di decenni il nostro paese somiglierà un po’ di più alla multiculturale società americana e si ritroverà a vivere conflitti e discriminazioni simili a quelli ai quali assistiamo oggi negli Stati Uniti. Per il momento, la foga distruttiva e cancellatrice americana è arrivata qui in forme depotenziate, forse anche in ragione, almeno così mi piace pensare, di una sensibilità storica e di una consapevolezza del proprio passato maggiore di altre società occidentali, legata non foss’altro alle tante chiese e rovine antiche che incrociamo con lo sguardo ogni qualvolta attraversiamo le strade di molte delle nostre città. In altre parole, oggi non si corre da noi il rischio di un’ondata iconoclasta o di una espurgazione dei testi classici dai programmi universitari. Assistiamo al massimo all’imbrattamento di una statua di Indro Montanelli da parte di qualche balordo, oppure discutiamo, in termini anche molto articolati e in fondo civili, dello “schwa”, di linguaggio inclusivo, cioè di una lingua capace di non discriminare in modo simbolico.
In un paese che non corre il rischio di gesti incendiari ma che allo stesso tempo ha molto terreno da recuperare in termini di discriminazioni di genere e atteggiamenti razzisti, solo per citare due temi particolarmente delicati, il politicamente corretto ha svolto e può continuare a svolgere un ruolo positivo, una funzione di progresso civile verrebbe da dire.
Il fenomeno della crescente frammentazione identitaria della società contemporanea e della scomposizione del dibattito pubblico in tante troppe nicchie social mediali ognuna invaghita della propria visione del mondo viene interpretato e strumentalizzato in modi diversi dalla politica italiana. A destra si ribadisce a ogni occasione che esiste una sola identità possibile nella quale riconoscersi (Dio, patria e famiglia), si grida al lupo a ogni tentativo di rendere il linguaggio più inclusivo e meno discriminante, si reagisce in maniera scomposta a ogni parvenza di approccio ottuso e censorio: se necessario lo si inventa di sana pianta, alimentando così uno stato di frustrazione e smarrimento che permetta loro di presentarsi come custodi del buonsenso di una volta. Una caccia ai fantasmi intesa, evidentemente, a rafforzare il proprio consenso culturale, un tempo si sarebbe detto la propria egemonia. Un paio di anni fa, caso esemplare, una direttiva europea fornì alcune indicazioni volte a migliorare la comunicazione tra diversi paesi e culture, tra queste la raccomandazione di prevedere, nella modulistica d’occasione, l’uso del “first name”, il nome proprio, invece del “Christian name”, com’è definito in inglese il nome di battesimo, e quella di non scegliere a titolo esemplificativo “soltanto” appellativi appartenenti alla tradizione cristiana: non sempre “Maria and John” dunque ma anche “Malika and Julio”. La notizia venne presentata dal Giornale con titoli sdegnati quali “vietato dire ‘Natale’ e chiamarsi Maria”, alimentando una spirale grottesca di esternazioni dei leader di destra: “In nome di una bieca ideologia si vuole sopprimere la cultura di un popolo”, dichiarò Giorgia Meloni, allora non ancora presidente del Consiglio; “Via il Santo Natale, sperando che in Europa nessuno si offenda”, gli fece eco Matteo Salvini. Così, per giorni, sui media italiani si parlò di come l’Ue stesse cercando di abolire il Natale: ovvero di un fatto completamente inesistente.
A sinistra sembra invece prevalere la volontà di raccogliere le tante pulsioni identitarie provenienti dalla società, legate al genere, all’orientamento sessuale, al tema della pace, alla denuncia del razzismo, alla difesa dell’ambiente, alla tutela delle etnie e delle minoranze religiose, con l’intento di capitalizzarne la spinta in termini politici ed elettorali. Si tratta di una volontà spesso genuina che si fonda però su un potenziale equivoco: la speranza, o l’illusione, che tutte queste identità si intreccino fra loro, risultino cioè complementari e convergenti, intersezionali come si dice, senza apparentemente cogliere gli aspetti più settari di tali forme di appartenenza identitaria che spesso tendono a escludere tutto ciò che non collima perfettamente con la loro visione del mondo e con le loro specifiche rivendicazioni. Il caso del movimento femminista che, in nome di una più che legittima difesa delle vite dei civili palestinesi violentate dai bombardamenti di Netanyahu, rimane cieco e silente di fronte alle violenze e agli stupri perpetrati da Hamas ai danni delle donne israeliane è solo il più recente ed eclatante.
Assicurarci che il modo in cui ci trattiamo l’un l’altro, e lo stato tratta tutti noi, dipenda dal gruppo in cui siamo nati o al quale scegliamo di appartenere – lo ha scritto Yascha Mounk nel suo recentissimo The Identity Trap (Penguin Press) – rischia di far passare l’idea che per compiere progressi politici sia necessario gettare al macero valori universali e regole neutrali. Il pericolo, come sottolinea anche Davide Piacenza, è quello di privarci di un orizzonte comune o di una dimensione collettiva sul piano sociale e politico, di mettere a repentaglio ogni prospettiva di pensare la società in termini universali, rimanendo piuttosto divisi in nicchie social mediali fintamente comunicanti, ognuna con una sua visione del mondo cementificata e immutabile.
Alla ricercata obiettività della scienza si sostituisce sempre più spesso il primato delle sensazioni individuali e delle esperienze vissute in prima persona: non ci servono conferme oggettive alle cose che ci persuadono, né contestualizzazione o letture misurate di quelle che ci indignano
Alla ricercata obiettività della scienza si sostituisce sempre più spesso il primato delle sensazioni individuali e delle esperienze vissute in prima persona: non ci servono conferme oggettive alle cose che ci persuadono, né contestualizzazione o letture misurate di quelle che ci indignano. I mondi che abitiamo ci danno l’illusione di poter parlare a tutti solo nella misura in cui il nostro coinvolgimento non conosce sfumature. E il risultato è che l’universalismo, la ragione, la tolleranza e la libertà di espressione, da valori fondanti delle società nate da due secoli di lotte ai totalitarismi, rischiano di diventare vecchi arnesi inservibili.
I classici insomma possono diventare preziosi alleati nella battaglia contro discriminazioni presenti e future, strumenti di comparazione utili a interpretare i presupposti di atteggiamenti oggi percepiti come inaccettabili. Non è ammissibile l’idea di silenziare la cultura classica all’interno delle università oppure proporne una versione purificata, espurgandone come in passato le parti più scabrose.
Giorgio Caravale insegna Storia moderna presso l’Università Roma Tre. Si occupa di storia culturale e religiosa dell’età moderna. I suoi ultimi libri, per Laterza: “Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna” (2022) e “Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni” (2023).