Una scena di "Torna da me", episodio della serie tv "Black Mirror", nel quale una vedova riceve a casa un clone del defunto marito 

Resurrezione digitale

L'ultima promessa dell'IA: non dovremo più dire addio ai cari estinti. Ne vale la pena?

Valeria Cecilia

I nuovi deadbot ribaltano completamente le teorie freudiane sull'elaborazione del lutto. Il contatto con la realtà, causa social, potrebbe comportare danni irrimediabili

Soffrire all’uomo non è mai piaciuto. Morire, neanche a parlarne. E oggi, dopo Freud, i vaccini e gli antidepressivi che non creano assuefazione, abbiamo un’arma in più: la resurrezione digitale. Di mezzo ovviamente ci sono loro, l’IA e le più grintose start up americane, cinesi e coreane. Nei loro claim promettono “non dovrai mai più dire addio a chi ami, anche se è morto”. Come? Tu gli dai i dati e loro creano il deadbot del tuo caro, così, dopo la sua morte, potrai continuare a sentire la sua vera voce, raccontargli la tua giornata, chiedergli cosa pensa delle prossime elezioni, del lavoro che non va, del tuo nuovo amore. Potrai controllare che fa, se sta in paradiso o all’inferno. Potrai litigarci e poi farci pace.

  

Le aziende che sviluppano i deadbot di fatto hanno aperto una nuova frontiera della Digital Afterlife Industry (DIA), che si occupa della gestione dei “resti digitali” per conto dei defunti. Solo che con i deadbot la morte non viene gestita ma trascesa. Di piattaforme di immortalizzazione digital e storie commoventi ce ne sono già per tutti i gusti in rete. Sulle conseguenze invece c’è ancora da ragionare. 

  
Partiamo da qui: la morte di una persona cara comporta un lutto per chi rimane. Il lutto è considerato (da Freud in poi, con alcune varianti) il processo necessario e salvifico di elaborazione, quindi superamento, della perdita, che ci fa tornare di nuovo alla vita con speranza. L’elaborazione, in vari step, consente di passare da uno stato di choc (incredulità e/o rimozione della perdita) alla presa di contatto con la realtà. Realtà? Sì, nell’èra del virtuale è ancora la realtà che ci salva. Ma se facciamo rimanere il defunto con noi, che fine fanno il lutto e la realtà?  E’ proprio questo il maggiore rischio, spiega al Foglio Luca Chittaro, professore ordinario di Interazione persona-macchina all’Università di Udine.

Chittaro ha appena pubblicato un libro, scritto a quattro mani con Giuliano Castigliego (psichiatra), dove viene affrontato il tema dei social da una doppia prospettiva: i bisogni antichi dell’uomo che lo spingono a interagire con il digitale e le conseguenze di questa interazione. Nel libro (Le illusioni dei social media, edito da Mimesis) i due autori mettono al centro come cartina tornasole di tutto proprio il contatto con la realtà. Se lo perdiamo (e i social tendono a farcelo perdere) qualcosa si rompe. Per Freud se non distinguiamo più la fantasia dal reale siamo nell’allucinazione. Poi ci sono altri rischi, ci dice Chittaro: “pensiamo al nostro deadbot che a un certo punto ci dice: ‘a proposito, che compagnia telefonica hai? Quest’altra ha le tariffe migliori’. E pensiamo alla creazione di dipendenza attraverso dialoghi guidati dall’algoritmo”. E’ chiaro che una regolamentazione si fa necessaria. Invece, per la questione del dolore, in libreria si trova sempre il bestseller degli anni ’80 di Judith Viorst, Distacchi, che ben illustra le conseguenze della non accettazione delle perdite che la vita comporta.